L’assalto all’ambasciata americana a Baghdad, a cavallo fra vecchio e nuovo anno, ha riportato alla memoria immagini di 40 anni fa. Quando a Teheran studenti di teologia tennero in ostaggio per 444 giorni 52 diplomatici dell’ambasciata statunitense.
Ma le similitudini sono poche. Nel 1979 fu un colpo di testa di un gruppo di studenti, poi manipolati per scopi politici dall’ayatollah Khomeini; oggi si butta giù una parte della cinta esterna, si brucia la ricezione, si sale sui tetti, ma poi ci si ritira in buon ordine quando chi aizza i manifestanti fischia la fine del gioco. Oggi, contro gli Stati Uniti di Trump e i loro alleati, gli iraniani procedono con mirate punture di spillo, per mano propria o dei gruppi armati cui ricorrono in Iraq, in Libano, in Siria, a Gaza, nello Yemen. Sei petroliere danneggiate, un drone americano abbattuto, le due principali raffinerie saudite messe fuori uso da droni, una serie di attacchi a basi militari in Iraq che ospitano personale americano. Troppo poco per cominciare una guerra seria, che comprenda incursioni profonde in territorio iraniano, o un’invasione. Gli Stati Uniti rispondono a loro volta con colpi di spillo: aumentando la presenza militare in Medio Oriente, bombardando un campo di miliziani iracheni sciiti ma soprattutto uccidendo il più potente generale iraniano, Kassem Suleimani (capo delle Brigate al Quds) con un missile a Baghdad. Teheran ha giurato vendetta per l'uccisione di Suleimani, ma resta dubbio che l'Iran voglia lasciarsi trascinare in una guerra aperta.
Tuttavia, è la politica americana ad aver provocato questa tensione fra due paesi in conflitto da decenni. È stato Trump a rompere l’accordo nucleare con l’Iran nel maggio 2018, a includere lo scorso aprile le Guardie della rivoluzione iraniane nella lista delle organizzazioni terroristiche e a inasprire le sanzioni economiche (blocco degli acquisti di petrolio iraniano in primis). È questo che ha spinto Teheran sul piede di guerra.
E tatticamente gli iraniani hanno giocato un paio di carte che hanno spiazzato gli avversari. Il 20 giugno abbattono un drone americano, ma Trump blocca all’ultimo momento una risposta militare; il 14 settembre avviene l’operazione più spettacolare: le due raffinerie saudite di Abqaiq e Khurais vengono attaccate da droni, partiti dallo Yemen o dall’Iran, per diversi giorni la produzione di petrolio saudita risulta dimezzata, anche questa volta gli americani non reagiscono. Questo fa capire agli iraniani che Trump urla e minaccia, però poi la guerra non la fa – quindi avanti con le punture di spillo, che sommate poi fanno male.
E questo lo capiscono anche gli alleati degli Stati Uniti, in particolare l’Arabia Saudita. Se la produzione di petrolio può essere interrotta da un attacco senza che gli Stati Uniti reagiscano, significa che gli interessi vitali di Riad non coincidono più con quelli di Washington. Vuol dire che forse Trump non è davvero pronto a difendere a tutti i costi la monarchia saudita. Si rovescia quindi la «dottrina Carter», secondo la quale gli Stati Uniti avrebbero anche usato le armi pur di garantire il trasporto di petrolio attraverso il Golfo persico.
Paradossalmente, il disimpegno americano ha calmato anziché esacerbato gli animi a Riad: in questi anni Trump ha delegato la difesa degli interessi americani a Israele e Arabia Saudita, illudendo il principe Mohammed bin Salman di poter fare il bello e il brutto tempo, convinto di avere le spalle coperte. Ora che ha capito l’antifona, attenua la guerra nello Yemen, annacqua l’embargo contro il Qatar, cerca meno il confronto con l’Iran. Ma anche questo mostra come gli equilibri in Medio Oriente dipendano più da singole contingenze e da determinate personalità che da visioni strategiche.