Usa e Cina sempre più estraniate

/ 09.09.2019
di Peter Schiesser

Le borse mondiali sembrano uno yo-yo: l’annuncio di un nuovo incontro a Washington fra negoziatori americani e cinesi a inizio ottobre, capeggiati dall’uomo di fiducia di Xi Jinping, il suo uomo per l’economia Liu He, le fa salire. Il fatto che Liu He avesse disdetto il round precedente previsto a inizio settembre per l’annuncio di nuovi dazi commerciali americani sui prodotti cinesi, le aveva fatte scendere, dopo che erano già state depresse da altri dazi in maggio; mentre in precedenza i segnali di un possibile accordo seguiti all’incontro di primavera le avevano fatte risalire. E quando le borse sono così volatili significa che c’è nervosismo. A breve termine, la guerra commerciale in atto non dovrebbe portare ad una recessione mondiale, ma diversi analisti americani reputano che se invece dovesse portare a tanto, sarebbe una recessione che lascia il segno.

In realtà, attualmente questi round negoziali possono portare ben poco: non si tratta più solo di una guerra commerciale, ma di uno scontro geopolitico. Se inizialmente il presidente americano ha usato l’arma dei dazi per costringere Pechino a comprare più prodotti americani per riequilibrare la bilancia commerciale, per migliorare l’accesso delle aziende americane in Cina e allo stesso tempo proteggerle dai «furti tecnologici» cui sono sottoposte, oggi Trump manifesta il chiaro obiettivo di impedire alla Cina di diventare la maggiore potenza mondiale entro qualche decennio e in particolare leader nell’intelligenza artificiale. Oggi non sembra più avere tanto a cuore il destino delle aziende americane in Cina, visto che ha deciso di imporre loro, con i suoi poteri presidenziali, di lasciare il suolo cinese. Questa confusione e sovrapposizione di obiettivi rende difficile che le parti raggiungano un accordo.

E l’appello-ordine di Trump non è caduto nel vuoto: alcune grandi multinazionali statunitensi hanno annunciato che si ritireranno dalla Cina e stanno cercando alternative in altri paesi asiatici, Vietnam e India per esempio. Altre aziende le hanno già precedute. Nell’economia globalizzata di oggi, le catene di produzione sono sparse in più paesi, doversi trapiantare altrove implica grossi investimenti e una visione a medio-lungo termine. Non sarebbe quindi logico che tornassero in Cina neppure se fra Trump e Xi Jinping dovesse concretizzarsi un accordo. Le economie statunitense e cinese erano molto intrecciate, ora lo stanno diventando meno e la strategia del governo americano è che lo siano ancora meno (quanto, non si sa). Le due maggiori potenze si stanno estraniando, ciò che le renderà ancora più soggette e disposte a conflitti.

Una guerra commerciale ha solo dei perdenti. Ma chi perde – come presidente eletto ma anche come presidente a vita – alla fine perde tutto. L’aumento dei dazi americani sui prodotti cinesi, che a fine anno supereranno il 40 per cento in alcuni settori, penalizzeranno i consumatori statunitensi e questo potrebbe alienare potenziali (ri-)elettori di Trump; allo stesso tempo un raffreddamento dell’economia cinese, così sensibile agli introiti derivanti dalle esportazioni, rappresenta un rischio per la stabilità del colosso asiatico. Tuttavia, le vie del mercato sono infinite: Cina e Stati Uniti potrebbero entrambe trovare nuove vie per assicurarsi delle buone basi produttive e mercati per le esportazioni, perché ormai l’intero mondo è diventato un mercato appetibile. La Cina infatti penalizza le merci americane ma mantiene bassi i dazi per quelle di altri paesi, gli Stati Uniti commerciano di nuovo di più con Canada e Messico. Tuttavia, il conflitto geopolitico fra i due colossi resta la contesa principale.