Gli Stati Uniti avranno il loro 46.esimo presidente, alla fine di conteggi, riconteggi e cause legali, e probabilmente sarà Joe Biden. Ma fin d’ora si può dire che sono state le elezioni più sconcertanti del Dopoguerra. E la causa sta da una parte sola, quella del presidente. Che ha dimostrato di non rispettare i valori della democrazia.
La sua insistenza a non voler riconoscere l’esito dell’elezione in caso di sconfitta, con fantasiose accuse di brogli, la sua richiesta di fermare il conteggio dei voti laddove era in vantaggio grazie ai voti in presenza (quelli per corrispondenza favoriscono Biden) e di contestare per vie legali i risultati a favore del suo avversario, sono un attacco a un pilastro del sistema democratico statunitense; anche se dovesse uscirne senza cedimenti subisce un danno di immagine e credibilità che pone l’iperpotenza mondiale su un piano inclinato. Peggiora il quadro il fatto che Trump è pienamente sostenuto dai suoi sostenitori. C’è un’America per la quale la democrazia serve solo a impossessarsi del potere, non importa con quali mezzi.
Consolante è che i timori della vigilia, di scontri violenti durante e all’indomani delle elezioni, non si sono concretizzati nei primi giorni dopo il voto, a parte qualche protesta. Tuttavia, l’immagine che si presenta al mondo è di una nazione profondamente e stabilmente divisa, in cui il dialogo con l’avversario non è più possibile. Se Biden ha ottenuto più voti di tutti i candidati democratici alla presidenza (venerdì rasentava i 74 milioni di voti), anche Trump, con quasi 70 milioni, ha superato se stesso di 7 milioni rispetto al 2016. La polarizzazione è talmente forte che la corsa alla presidenza ha mobilitato sia gli avversari di Trump, sia nuovi e vecchi sostenitori.
Questo porta alcuni analisti americani ad affermare che Donald Trump non sparirà dal palcoscenico politico, in caso di sconfitta: la base elettorale repubblicana è ai suoi piedi, ha un seguito enorme che travalica i confini partitici, di fatto rimarrà il leader del Gran Old Party, eventualmente influenzando le posizioni dei «suoi» membri del Congresso. E potrebbe anche ripresentarsi alle presidenziali del 2024 per un secondo mandato (a 78 anni), se non riuscisse a farsi riconfermare quest’anno. Che lui rimanga presidente o che voglia riprovarci fra quattro anni, potrebbe rimanere un’ipoteca pesante sulla democrazia statunitense. Anche questa è una novità, se pensiamo che, a parte qualche apparizione in tempi di elezioni, gli ex presidenti escono totalmente dalla scena politica.
Con i repubblicani soggiogati dal fascino per la politica e la personalità dirompente di Trump, con questa profonda frattura politico-sociale-economica fra le due Americhe, si può concludere che queste elezioni presidenziali, quale ne sia l’esito, non sono state risolutive. I danni alla credibilità e alla stabilità delle istituzioni, l’uso dei poteri presidenziali a vantaggio personale, l’erraticità di muscolose politiche nazionali ed internazionali tolgono gli Stati Uniti dal piedistallo del faro della democrazia. Non che questa America arrogante fosse sconosciuta al mondo in passato, specialmente in America latina, dove dagli anni Cinquanta e per diversi decenni si oppose a ogni tentativo di sostituire le oligarchie con dei governi democratici, appoggiando colpi di Stato militari o insurrezioni (provocando, come reazione, uno spostamento a sinistra delle forze riformiste). Ma speravamo che nel frattempo l’anima davvero democratica, che esiste negli Stati Uniti, avesse preso definitivamente il sopravvento. Con o senza Trump alla Casa Bianca, agli Stati Uniti restano i problemi di una democrazia incompiuta e visibilmente in crisi.