Un’identità fittizia

/ 14.08.2017
di Silvia Vegetti Finzi

Cara Silvia, in questi giorni di vacanza ho ritrovato con piacere una cara amica di università che avevo perso di vista.

Mi ha accolto con grande entusiasmo e, come capita a noi donne, ci siamo raccontate in quattro e quattr’otto tutta la nostra vita. La sua mi è sembrata di grande successo professionale e affettivo: avvocatessa a Parigi, sposata con un uomo ricchissimo, dopo la nascita di due figli, maschio e femmina, si è separata per amore di una nota personalità politica con cui felicemente convive. Le confesso che, in confronto, mi sono sentita una fallita. La mia è una vita serena ma modesta, senza infamia e senza lode. Peccato che poco dopo sia venuta a sapere, da un’amica comune, che sono tutte menzogne. La bugiarda non ha realizzato niente di tutto quello di cui si vanta: dopo vari cambi di Facoltà e di sede, non si è mai laureata e vive, mantenuta dai genitori, nella casa di famiglia. Ma perché, mi chiedo, inventarsi una falsa identità? Perché rischiare di farsi scoprire mostrandosi così più perdente di quanto non sia? Non è meglio presentarsi per quello che si è piuttosto che come si vorrebbe essere? Grazie se vorrà rispondermi. / Valeria

Cara Valeria, vorrei per prima cosa attenuare il suo sdegno con la constatazione che nessuno è completamente indenne dalla tentazione di edulcorare la realtà. Vi è, nella vita di ognuno, qualche aspetto intollerabile che cerchiamo di ammortizzare con la fantasia. Sono soprattutto i bambini che, abitando nell’infanzia dove quasi tutto deve ancora avvenire, si permettono di evocare mondi possibili, esistenze probabili, affetti desiderabili, come racconto nel libro Una bambina senza stella.

Crescere, diventare adulti, comporta invece di abbandonare lo spazio dell’illusione per riconoscere la realtà che, essendo l’unica possibile, ha sempre qualche cosa d’impositivo e limitante.

Infatti non lo facciamo mai del tutto e, per rendere la vita vivibile, ci consentiamo qualche abbellimento, qualche aggiustamento che ci renda migliori ai nostri occhi, ancor prima che allo sguardo degli altri.

Accanto all’Io reale esiste un Io ideale che orienta la nostra identità verso il perfezionamento di sé e il riconoscimento del nostro valore e, come tale, svolge una funzione evolutiva. 

La differenza con la sua amica consiste, come insegna Freud a proposito dei nevrotici, più nell’eccesso che nella modalità di comportamento. L’impossibilità di accettarsi spinge infatti la poverina a mentire al di là del verosimile, oltre l’accettabile. Suppongo che la sua esistenza le risulti così insopportabile da essere rifiutata del tutto e sostituita con un’altra o con altre essendo, l’immaginazione, illimitata. 

Il risultato immediato consiste nell’evitare il compatimento e di godere piuttosto dell’invidia degli altri. È probabile che, mentre raccontava i suoi improbabili successi, l’amica ritrovata spiasse le sue reazioni per constatare se avesse colpito nel segno. Tuttavia riscontro, nell’evidente esagerazione di quel resoconto esistenziale, il desiderio inconscio di essere scoperta e di ritrovare, nel crollo del suo castello di bugie, un contatto con la realtà.

Non so se lei abbia intenzione, oltre che di comprendere anche di aiutare, in nome della vostra antica amicizia, questa persona in difficoltà. Se così fosse, dovrebbe mantenere i contatti cercando man mano di farle accettare la realtà. In un mondo di falsità, la sua stessa discreta, disponibile presenza può rappresentare un elemento di verità. Non è tuttavia necessario infrangere completamente lo specchio magico dell’illusione dietro cui si cela una grande fragilità e un bisogno di aiuto e di conforto che non trova parole per dirsi. 

In un caso, che ho avuto occasione di seguire indirettamente, una giovane millantatrice cercava di curare con una falsa identità la ferita profonda che la tormentava senza tuttavia riconoscerla. Alla nascita del fratello, i genitori l’avevano consegnata alla nonna e alla zia per concentrarsi sul desideratissimo maschio e il trauma era stato così forte da indurla a sprofondare nell’inconscio l’evento e il risentimento. Col risultato di affidare al sintomo il compito di compensare indebitamente, attraverso l’artificio, il riconoscimento che le era stato negato dalla sua famiglia.

Solo quando, grazie alla psicoanalisi, riuscì ad affrontare quell’esperienza negata, le fu possibile ammettere la sofferenza ed elaborarla senza ricorrere a trucchi e inganni.

Più grave e più nociva della tentazione di presentarsi, non come si è ma come si vorrebbe essere, vi è quella di provare la propria superiorità denigrando gli altri, calunniandoli, esponendoli al disprezzo degli altri. In ogni caso dovremmo educare i giovani a superare l’onnipotenza della prima infanzia, quando si crede di poter essere tutto, e accettare limiti, debolezze e fragilità, non per farsene un alibi ma per superarli con la consapevolezza che il senso della vita non sta tanto nel successo (termine pericoloso e ambiguo) ma nello sforzo di realizzare le nostre potenzialità. 

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