Un’arte sconcertante

/ 09.07.2018
di Franco Zambelloni

Devo ammetterlo: faccio fatica a seguire i progressi che in molti campi si succedono, sempre più veloci. Uno di questi campi è l’arte, con opere che mi risultano spesso enigmatiche: mi capita, a volte, di contemplare un groviglio di ferraglie posto su una strada e mi viene da pensare che, invece di scaricarlo per rottamazione in un deposito dei rifiuti, si è preferito promuoverlo a «scultura». Questa difficoltà di comprensione – s’intende – è dovuta a un mio limite, non a un difetto dell’artista; e tuttavia questo carattere ermetico di tanta arte contemporanea è pur sempre un eloquente segno dei tempi.

Il fatto è che da un artista – soprattutto oggi, dopo il tramonto dei canoni estetici tradizionali – ci si attende originalità, capacità di innovazione, inventiva; ma dopo millenni di produzione artistica è difficile trovare qualcosa di originale. Occorre dunque inventarsi nuovi linguaggi: infatti, abbandonando progressivamente l’arte figurativa, si è passati dal cubismo al dadaismo, dall’astrattismo al kitsch, all’informale… Ma ogni nuovo linguaggio va appreso, come una lingua straniera, e, soprattutto, dev’essere condiviso da una comunità che lo comprende. Però le mode passano troppo in fretta perché un nuovo codice estetico possa affermarsi durevolmente; così l’artista che sul momento non trovi forme originali può sempre ricorrere alla «stramberia»: esempi famosi non mancano. Nel 1917 Marcel Duchamp acquistò un orinatoio prodotto in serie da un’industria, lo battezzò Fontana, vi appose una firma, lo dichiarò opera d’arte e lo espose a una mostra di New York (ovviamente, non nella toilette!). Ebbe successo: oggi – volendo – si possono ammirare parecchie repliche del capolavoro di Duchamp (l’originale purtroppo è andato perduto) nel Museum of Modern Art di San Francisco, nella Tate Gallery di Londra, nel Centre Pompidou di Parigi e in vari altri importanti musei.

In questo caso, direi che originale non è l’oggetto d’arte, ma l’idea che ne è all’origine: l’assurdità di elevare a dignità artistica un prodotto industriale di basso impiego ebbe un effetto sconcertante. Fu appunto lo sconcerto a determinare la sorpresa e il successo dell’opera. Il fatto poi che chiunque possa acquistare un esemplare identico al capolavoro e metterselo in casa per farlo ammirare agli amici non inficia il valore dell’opera: sarebbe solo una copia, priva di originalità. E poi, costerebbe troppo poco. Già nel Seicento, infatti, La Fontaine scriveva in una delle sue Favole: «Si stima l’arte che si fa pagare». Quando sul mercato un nome, una firma, vedono salire le loro quotazioni, allora il valore estetico dell’opera è garantito e l’autore è un artista consacrato.

La Fontana di Duchamp è dunque un buon esempio di come siano cambiati i canoni estetici. Un artista, in passato, era apprezzato in primo luogo per la padronanza della tecnica pittorica o scultorea; Duchamp non ne ha avuto bisogno (o forse ha avuto un bisogno d’altro genere…). Ha solo inventato un’assurdità sconcertante e su questo sconcerto ha fondato il suo successo. Forse stiamo tornando al Barocco: «È del poeta il fin la meraviglia: – cantava il Marino – [...] chi non sa far stupir, vada alla striglia!». Però quella «meraviglia» secentesca il poeta d’allora sapeva evocarla con splendidi versi raffinati e perfettamente comprensibili.

C’è comunque un’altra ragione, e magari anche più rilevante, alla radice di queste virate verso lo sconcerto suscitato da un’apparente insensatezza che stupisce. L’arte figurativa di un tempo parlava, appunto, un linguaggio condiviso fondato su una tradizione comune; le scene religiose negli affreschi delle chiese richiamavano immediatamente al visitatore il corrispondente passo evangelico, o i miracoli e la vita del santo raffigurato; i ritratti di personaggi storici erano ben noti a chi avesse un po’ di cultura; i paesaggi di Friedrich, di Monet, di Segantini, evocavano emozioni sublimi al solitario abituato a percorrere sentieri sui monti, a vagare sulla riva del mare o nei campi. Tutte cose che si vanno perdendo insieme alla tradizione: senza più una cultura e un’esperienza condivisa queste immagini risultano estranee, ammutoliscono perché non hanno più chi le intenda. L’arte d’oggi deve parlare il linguaggio d’oggi – ossia, la cacofonia dei rumori, l’invadenza degli oggetti di consumo, la stravaganza degli individualismi sfrenati. Deve dunque esaudire la preghiera di Gillo Dorfles a proposito del Kitsch: «Dacci oggi il nostro brutto quotidiano».