Le sempre più numerose e gremite manifestazioni per il clima potrebbero far pensare, soprattutto tra i giovanissimi che le promuovono e le animano, che l’ecologia sia una scoperta recente, diffusa e amplificata dalla grande rete in cui siamo tutti immersi, noi e loro. In realtà l’irruzione della questione ambientale nel dibattito pubblico risale agli anni 60 e 70 del Novecento. In Svizzera i progetti contestati riguardavano allora gli sbarramenti idroelettrici e il ricorso al nucleare, prima per scopi militari (armamento atomico) e poi civili (centrali per la produzione di energia). Fu in quel torno di tempo che videro la luce i movimenti intesi a salvaguardare oasi naturali come brughiere e foreste e ad impedire che a ridosso degli agglomerati urbani nascessero impianti dalla foggia di fungo che inconsciamente rimandavano alle bombe sganciate dagli americani sul Giappone nell’agosto del 1945.
Generati dal basso, dalle comunità direttamente coinvolte, questi movimenti apparivano poco strutturati e non inquadrabili nei partiti tradizionali: sorgevano e morivano in base alle urgenze del momento. La svolta si produsse nei primi anni 70. L’intenzione dell’esercito di costruire nel-l’area paludosa di Rothenturm (Svitto) una piazza d’armi incontrò la resistenza degli abitanti del luogo, che infine, dopo lunghe battaglie, la spuntarono nelle urne (votazione popolare sulla loro iniziativa nel 1987). Ancora più intensa fu la mobilitazione per bloccare l’edificazione di una centrale nucleare a Kaiseraugst (Argovia) nel 1975: anche qui il conflitto andò avanti per anni, attraverso marce e l’occupazione dei terreni destinati alla costruzione dell’impianto, per concludersi con una decisione di abbandono nel 1988. Questi successi, conseguiti in una fase in cui sia l’esercito sia le aziende impegnate nel nucleare erano ancora in grado di esercitare sull’opinione pubblica e sulla politica un potere notevole, fatto anche di ricatti, convinsero molti ambientalisti a darsi un’organizzazione più compatta e reattiva: un coordinamento nazionale che tuttavia lasciava ampia libertà di manovra ai gruppi regionali. Nel solco di quanto avveniva nella vicina Germania occidentale con i «Grünen» guidati da Petra Kelly, prese piede l’idea di fondare un «partito dei verdi» che potesse partecipare alle competizioni elettorali cantonali e federali. E così avvenne, soprattutto negli anni 80. Anche in Ticino i verdi riuscirono nel 1987 a presentare una lista sotto il nome di Movimento Ecologista Ticinese (MET).
L’ambientalismo non era riducibile ad una setta monotematica, popolata di strambi militanti dall’aria francescana, come spesso ritenevano, sogghignando, gli avversari politici. Aveva invece alle spalle già un considerevole patrimonio di studi e moniti, frutto di pensatori del calibro di un Barry Commoner e di un Fritjof Capra. Nel 1968 si era costituito nella capitale italiana il «Club di Roma», il cui rapporto sui limiti dello sviluppo sarebbe apparso nel 1972, poco prima della crisi petrolifera. Gli echi di questa nuova sensibilità per le sorti degli habitat giunsero anche nel piccolo Ticino, in particolare negli istituti superiori. Bruno Caizzi, docente alla Commercio di Bellinzona, fu tra i primi a recepirli e a proporli alla discussione. Nel 1975 compose un’ampia opera per conto del Dipartimento della pubblica educazione, intitolata Antologia di scritti sull’ecologia e sulla demografia.
Un volume tipograficamente dimesso, grigio-marrone, ma ricco di spunti e suggestioni. A rileggerlo si rimane colpiti dalla preveggenza del curatore, considerazioni che oggi potremmo ritrovare nelle pagine di Serge Latouche, l’alfiere francese della decrescita. Osservava Caizzi: «Gli abitanti del mondo ricco, che sono già oggi fortissimi consumatori di beni naturali d’ogni specie, vivono nel mito di un benessere misurato in termini di denaro e di sperpero e sembrano credere in un processo all’infinito verso più alti redditi e più alti consumi. […] La concezione antropocentrica del mondo che, a giudizio di alcuni critici moderni, è il retaggio trasmesso dalle religioni di derivazione ebraico-monoteista alle civiltà dell’Occidente, porta a considerare la natura tutta, incluse la flora e la fauna, come una proprietà su cui l’uomo vanta diritti assoluti di prelazione e godimento». Un’antologia che, a quasi quarant’anni dalla sua apparizione, padri e madri potrebbero ancora consigliare ai figli che sfilano nelle strade.
Un’antologia «verde» da riscoprire
/ 22.11.2021
di Orazio Martinetti
di Orazio Martinetti