Un’altra faccia del progresso

/ 18.04.2017
di Franco Zambelloni

Le cronache televisive hanno mostrato le stragi di civili provocate dalle armi chimiche che il regime di Assad pare aver utilizzato contro la provincia di Idlib; hanno poi messo in onda le riprese di missili americani che si levavano con una lunga scia bianca per una spedizione punitiva contro la base aerea di Shayrat; poi hanno annunciato nuovi test di lanci missilistici della Corea del Nord. Così le armi di distruzione di massa dominano gli scenari di un inquietante presente e di un ancora più inquietante futuro.

Non c’è dubbio che il progresso tecnologico ha fatto passi da gigante anche nel settore degli armamenti. Ci sono testimonianze del Quattrocento – quando la polvere da sparo e le prime armi da fuoco avevano fatto da poco la loro comparsa – che oggi fanno sorridere per l’ingenuità delle loro affermazioni. L’Ariosto, nell’undicesimo canto dell’Orlando furioso, disprezza l’arma da fuoco che permette di colpire da lontano e di evitare così, vilmente, il duello faccia a faccia; e accusa l’archibugio: «Per te la militar gloria è distrutta, / per te il mestier de l’arme è senza onore». Una tesi ripresa da Cervantes che fa maledire da don Chisciotte l’inventore delle «indemoniate macchine dell’artiglieria», con le quali «un ignobile e codardo braccio può togliere la vita a un prode cavaliere».

Non molti anni fa Ermanno Olmi ha riaffermato la tesi dell’Ariosto e di Cervantes nel bel film Il mestiere delle armi, nel quale le trasformazioni tecnologiche della guerra eclissano i codici d’onore del cavaliere e assegnano la vittoria militare non al valore dei combattenti, ma all’efficienza dell’artiglieria. Eppure, ai tempi dell’Ariosto, la potenza di fucili e bombarde era ben poca cosa, stando ad altre testimonianze dell’epoca: Machiavelli, nell’Arte della guerra, sosteneva che «i cannoni servono solo a spaventare i contadini»; e ancora Montaigne, nel 1580, scriveva: «È molto più facile poter contare sulla spada che teniamo in pugno che sulla palla che esce dalla nostra pistola, in cui vi sono molte parti, la polvere, la pietra, la ruota, delle quali la minima che fallisca farà fallire la vostra sorte. Quanto a quest’arma, salvo l’assordamento degli orecchi, a cui ormai ognuno è abituato, credo che sia di pochissimo effetto, e spero che un giorno ne abbandoneremo l’uso».

Speranza vana: la scienza e la tecnologia fanno progressi costanti e con rapidità sempre più vertiginosa, anche negli armamenti; la morale umana, assai meno. Anzi, è anche vero – come rilevava Konrad Lorenz – che la possibilità di uccidere da lontano, senza vedere in volto il dolore della persona colpita, toglie il freno inibitore della compassione e allenta gli scrupoli morali, rendendo così assai più facile ammazzare.

È pur vero che i Paesi dell’Europa occidentale stanno vivendo, da ormai più di settant’anni, il più lungo periodo di pace di tutta la loro storia; ma non tutti concordano sul fatto che ciò sia dovuto a un’evoluzione della morale. C’è chi dice che la guerra non è cessata affatto, neppure da noi: semplicemente, alla guerra delle armi è subentrata la guerra economica, il cui scopo non è più la conquista di territori, bensì la conquista di mercati. E c’è chi sostiene che il freno che impedisce lo scatenarsi di un’altra guerra mondiale non è affatto dovuto al progresso della morale e della civiltà, ma solo alla paura connessa con le capacità distruttive di una guerra atomica. Quando, nell’ottobre del 1962, scoppiò la crisi dei missili cubani e Russia e Stati Uniti si fronteggiarono in un braccio di ferro che sembrava destinato a risolversi in un conflitto nucleare, non fu un impulso etico ad evitare lo scontro: semplicemente, entrambe le parti si resero conto che da una devastazione nucleare nessuno sarebbe uscito vincitore, ma tutti ugualmente sconfitti.

Anche la paura, dunque, fa progressi, sulla scia dell’avanzata tecnologica. Ma non posso non ricordare che quando fu messa a punto la prima bomba atomica, che fu fatta esplodere per un esperimento di prova ad Alamogordo nel Nuovo Messico, il generale Groves, capo del progetto, telegrafò subito dopo al presidente Truman: «Baby is born» – «il bambino è nato». Poi, un altro comandante battezzò col nome di sua madre – Enola Gay – l’aereo che avrebbe sganciato la bomba su Hiroshima. Strano miscuglio di amore e orrore; strano, ma non certo nuovo per quell’homo sapiens che – come suona il titolo di un libro famoso di James Hillman – ha sempre dato prova di «un terribile amore per la guerra».