Una vita da talpa

/ 25.04.2022
di Orazio Martinetti

La presenza capillare sul territorio elvetico di rifugi antiatomici desta sempre sorpresa e curiosità, soprattutto oltre confine. Concepiti negli anni «caldi» della guerra fredda (prima metà degli anni Sessanta), i bunker pubblici e privati dovevano proteggere la popolazione dalle conseguenze di un bombardamento a tappeto o di un attacco con armi nucleari. Quel guscio massiccio ricavato nel sottosuolo, accanto alla lavanderia e all’impianto di riscaldamento, appariva rassicurante: nel loculo in cemento armato ci saremmo salvati tutti quanti, e non solo i soliti privilegiati, come accadeva negli altri paesi. Certo, poi sorgevano dubbi e timori: per quanto tempo, in quali condizioni, con quali contatti con l’esterno? E gli animali domestici? E poi che mondo avremmo trovato uscendo dalla tana? Qui gli interrogativi rimanevano senza risposta, lasciando campo libero all’angoscia.

Nel 1969 sorse così l’esigenza, da parte del governo federale, di illustrare agli occhi dell’opinione pubblica la strategia difensiva del paese. Il Dipartimento di giustizia e polizia ricevette l’incarico di redigere un prontuario da distribuire a tutte le economie domestiche. Difesa civile, questo il titolo del manualetto che si giovava della prefazione di Ludwig von Moos. Nel libro i compilatori – tra cui il saggista Guido Calgari – elencarono i provvedimenti da prendere in caso di un’aggressione militare alla Svizzera, una simulazione che si voleva aderente alle minacce dell’epoca e alla forza degli eserciti che si fronteggiavano a distanza nel cupo scenario dell’«equilibrio del terrore». In tale dispositivo il rifugio occupava una funzione centrale. Di qui l’esigenza di attrezzarlo in modo conveniente per accogliere le famiglie a lungo. Ma quanto a lungo? «Tenete conto dell’eventualità di un soggiorno prolungato nel rifugio». Settimane? Mesi? Sulla durata le risposte rimanevano vaghe perché troppe erano le variabili da considerare.

A molti quelle spiegazioni e istruzioni apparvero subito irrealistiche. Qualcuno s’indignò o semplicemente sorrise; qualcun altro, invece – i più critici – scorsero in quell’iniziativa editoriale il tentativo di militarizzare l’intera società, di estendere la logica militare del ridotto alpino all’intero territorio. D’altronde lo si diceva a chiare lettere nel testo: «Perché l’abbiamo fatto? Perché ci si abitui a pensare a ogni eventualità, anche alla peggiore, e a prevedere e provvedere».

Le relazioni internazionali dell’epoca, come abbiamo detto, erano improntate alla guerra fredda; rovente era invece la situazione sociale dopo l’esplosione del maggio parigino nel 1968 e l’ondata delle proteste giovanili nelle scuole superiori e nell’università. Che il nemico qualificato con il nome di «Panterra» fosse l’Unione Sovietica, nessuno dubitava. La repressione della Primavera di Praga bruciava in tutte le coscienze. Le allusioni al blocco comunista erano evidenti. Più sottili erano invece i ragionamenti che ruotavano intorno al ruolo degli attori sociali, delle donne, dei giovani e degli intellettuali. Alla donna si riconosceva un ruolo fondamentale, ma soltanto nelle retrovie, nel quadro della protezione civile. Nessun accenno al diritto di voto, ancora assente. I giovani erano una risorsa preziosa, ma a patto che non si facessero contagiare dalla contestazione e dalla rivolta. Gli intellettuali, infine, proprio perché eternamente scontenti, rappresentavano un ottimo cavallo di Troia per la propaganda nemica.

Le reazioni dell’intellighenzia non allineata su quelle posizioni furono veementi; la partecipazione di alcuni di loro alla redazione del testo (il citato Calgari e il vallesano Maurice Zermatten) creò malumori al punto di provocare una scissione all’interno della Società svizzera degli scrittori. I dissidenti – tra cui Dürrenmatt, Frisch, Muschg e i ticinesi Orelli e Nessi – dettero vita nel 1971 a un nuovo sodalizio, il «gruppo di Olten», che alla Società rivolgeva l’accusa di alimentare ovunque una «Bunkermentalität», una mentalità di Stato di allerta permanente. Dopo il crollo dell’Urss la guardia si è abbassata; molti impianti sotterranei militari sono stati abbandonati o riconvertiti in centri di stoccaggio di dati sensibili. Alcuni rifugi sono stati adibiti ad alloggio per profughi, le uniche persone che finora hanno potuto sperimentare, almeno parzialmente, quel tipo di vita ipogea. Narrano comunque le cronache che trasferire i richiedenti asilo nel sottosuolo non è stata una buona idea.