Qualche giorno fa sono giunte alla Stanza del dialogo due lettere, scritte a mano su fogli a quadretti con un linguaggio italo-portoghese un po’ difficile da leggere ma alla fine veniamo a conoscere la nostra corrispondente. Si chiama Isabel, ha 63 anni ed è di origine portoghese. Come tutti sta vivendo una situazione difficile per la pandemia che ha colpito il mondo. Nel suo caso particolarmente difficile perché vive sola, soffre di malattie croniche ed è immigrata in una nazione che, per quanto l’abbia accolta con solidarietà, non è quella in cui è nata, non cucina i suoi cibi, non parla la sua lingua. A una certa età la memoria torna al passato. Per gli immigrati la nostalgia del paese natio, della patria lontana, si colora di malinconia mentre la prima lingua, quella materna, si sovrappone sempre più alla seconda, appresa per adattamento. Ma Isabel non si lamenta, anzi, cerca di incoraggiare gli altri.
Ascoltiamola: «Prima mi domando, come mai sempre più gente dice che sta male in questi momenti. Dicono addirittura maledetto il Covid 19. Ma io non sono d’accordo. C’è una malattia adesso come tante avute nel passato, inutile maledirla. Siamo noi che dobbiamo conformarci alle cose che vengono. Io sono fortunata o magari sarò contagiata più avanti. Sono sola ma non soffro di solitudine. Uso sempre la mascherina quando sono fuori casa ma mi chiedo: come mai dobbiamo usarla per proteggere gli altri e non noi stessi? Mi dicono che proteggendo gli altri proteggiamo noi stessi. Se è così sono d’accordo altrimenti non sono molto d’accordo. Frequento tre volte alla settimana il Centro diurno di Lugano “La Fenice”. Mi aiuta molto stare in compagnia perché c’è gente nella mia stessa situazione. L’importante per me è avere salute e il denaro per la spesa settimanale, così non mi lamento: leggo i giornali , guardo la televisione e sono a posto così. Grazie mille per la sua comprensione e arrivederci».
Grazie a lei, cara Isabel, che evidentemente legge «Azione» e segue la rubrica La stanza del dialogo, grazie per la fiducia che mostra nei miei confronti e grazie di testimoniare, con coraggio, e generosità, che il distanziamento non comporta necessariamente solitudine e che tutti insieme ce la possiamo fare.
Nella seconda lettera Isabel, riferendosi a un sondaggio effettuato da Patti chiari, pone una serie di domande sulle persone che non usano la mascherina. Ritiene quei dati molto interessanti ma manca, secondo lei, un’inchiesta che riguardi chi la utilizza regolarmente.
Come sappiamo, Isabel è tra questi, anche se segnala non pochi disagi: «si bagna, fa sudare ma non è vero che non fa respirare. Si respira benissimo». Inoltre non sa, come sostiene una conoscente, se tutti devono fare il test e, nel caso, chi lo paga.
Per questa e altre domande rinvio Isabel al Centro che frequenta o al suo medico perché le norme variano ed io non sono abbastanza competente per fornirle risposte esaurienti. Vorrei invece rimarcare il suo modo di reagire alla paura senza imprecare o lagnarsi, la sua capacità di darsi coraggio e di infonderlo agli altri. La prova che stiamo affrontando è indubbiamente durissima e non è vero che ne usciremo automaticamente migliori. Anche se colgo segnali positivi. Dal mio osservatorio vedo che l’empatia, intesa come capacità di comprendere l’altro, di mettersi nei suoi panni, sta moderando i conflitti di una società competitiva.
«Chi empatizza, scrive Elena Pulcini nel suo ultimo libro Empatie (Cortina Editore), “vede” di più (o si accorge di quanto abitualmente non vede) “sente” di più (la pena al pensiero della sofferenza dell’altro). La circolazione dell’empatia sta mutando la solidarietà umana rendendola meno astratta e formale. Il modo con cui ci prendiamo cura degli altri sta cambiando. Colpiti da una pandemia che non fa distinzioni, che può colpire chiunque in qualsiasi momento, ci sentiamo tutti “sulla stessa barca”», naufraghi alla ricerca di un porto sicuro.
La compassione si sta attuando, non semplicemente con un gesto che appaga la coscienza, come partecipare a una raccolta di fondi per una causa umanitaria, ma anche col prenderci cura delle persone in difficoltà, non solo materiale. L’attenzione può essere così sensibile da raggiungere chi è talmente demoralizzato da rinunciare persino a chiedere aiuto. La cura di chi ha bisogno non riveste più l’aspetto caritatevole di un tempo, quando il ricco che donava si sentiva superiore al povero che riceveva. Ora il dare e l’avere si pareggiano nella reciprocità. Tra congiunti, colleghi, vicini di casa si sta creando una solidarietà paritetica: oggi tocca a me, domani a te. Una corrente vitale passa attraverso la prossimità , si realizza in un incontro di corpi e pensieri che avviene con discrezione, senza suscitare né superbia né umiliazione. Per vincere l’anonimato della società di massa in cui viviamo, abbiamo bisogno di sentirci «qualcuno per qualcuno», non solo nella teoria ma nella pratica quotidiana. E lo scambio di attenzione da persona a persona ce lo consente. L’ascolto, il dialogo, un gesto gentile sono modalità concrete di stare insieme, di vincere la solitudine e di riconoscere il desiderio di amore che si sottende a ogni domanda. E a ogni risposta.
Grazie Isabel per aver bussato alla Stanza del dialogo, dove ti riceviamo con l’ospitalità che si deve a un’amica.