Poche settimane prima della sua morte (giugno del 2009), l’economista e filosofo Ralph Dahrendorf, in una delle sue ultime interviste aveva dichiarato che alla fine della crisi lo standard di vita si sarebbe ridotto, cioè saremmo tornati ai livelli di vita degli anni Settanta «con molta più tecnologia ma senza l’ottimismo di quei decenni» e che ne saremmo usciti solo abbandonando e condannando le regole di quella cultura del debito «per la quale mettevi lì cinquanta euro e ti pareva normale che ti dessero un’automobile o una casa». Qualche settimana fa ho cercato e riletto quell’intervista, subito dopo aver appreso la notizia che oltre duecento proprietari e amministratori di imprese statunitensi – dalle più vecchie JP Morgan e General Motors, sino ai giganti «novissimi» come Amazon, Apple o il fondo finanziario Black Rock – hanno pattuito, come membri della «Business Roundtable» (letteralmente «Tavola rotonda degli affari»), l’impegno a compiere una decisa virata nel comportamento etico delle loro aziende.
Sul momento ho pensato: il Dahrendorf filosofo politico, oltre che eccellente economista, aveva ragione: occorre abbandonare la rotta indicata da Milton Friedman, avviata da Ronald Reagan e Margaret Thatcher e rimasta in auge per quasi mezzo secolo, nonostante una serie di sbandamenti che hanno avuto origine sia dal monetarismo più sfrenato sia da una non facile globalizzazione realizzata dai mercati più che dalle politiche economiche nazionali. Dopo dieci anni anche i potenti del mondo economico occidentale, cioè i capi delle più potenti industrie americane e del mondo, si trovano d’accordo e sembrano finalmente decisi a lasciare i sentieri sinora battuti e a virare verso nuovi orizzonti. Come amano fare gli americani, il cambiamento sarà contrassegnato dal passaggio da una formula all’altra. Quella da abbandonare, predicata da Friedman, era etichettata da una sorta di mantra: «The business of business is business». Molto più prosaicamente l’emblema del mutamento parla di abbandono dello «shareholder value» e di un passaggio allo «stakeholder value». Quindi si punta al varo di un capitalismo più responsabile che, senza tradire i fondamentali tracciati da Adam Smith, sappia indirizzare le attività delle multinazionali verso la «dignità e il rispetto», attivando così un impegno crescente verso le nuove generazioni.
Nessuno oggi conosce le mappe e gli strumenti che occorrerà approntare per attivare la virata e mettere in pratica i nuovi orientamenti. Merita comunque segnalazione il fatto che, in quella che mi è sembrata l’analisi più approfondita dell’intesa annunciata dalla «Business Roundtable», il quotidiano britannico «Financial Times» abbia sottolineato come l’iniziativa sia anche una risposta politica (e non v’è dubbio che in America il messaggio è rivolto non solo a Trump, ma anche al partito democratico che lo avversa) alla crescita dei movimenti populisti e sovranisti che hanno attecchito puntando sul fatto che i governi hanno lasciato mano libera ai profitti aziendali a discapito delle condizioni etiche, sociali e ambientali che invece sembrano ora decise a prendere il sopravvento. Il documento ha comunque un punto di non ritorno: impedire gli eccessi legati alla ricerca di profitti a corto termine. La domanda da porsi oggi è però un’altra: politica e governi tenderanno una mano alle imprese per favorire maggiore dignità verso i dipendenti, rapporti corretti con i produttori, rispetto dei consumatori e, non da ultimo, controllo dell’impatto sull’ambiente? Senza dimenticare che il cambiamento susciterà reazioni e contromosse di altri governi, notoriamente impegnati in varianti nazionali dell’economia di mercato (si pensi alla Cina) e non così aperti per quel che riguarda il rispetto di valori etici in campo sociale, economico e anche politico.
Confesso che sulle prime il fatto di vedere le alte sfere del gigante Black Rock, con in prima fila ex-banchieri centrali (tra cui anche il nostro Philipp Hildebrand), monopolizzare subito l’informazione mondiale con bordate contro le attuali politiche monetarie, aveva fatto aumentare il mio scetticismo. Poi però, constatando che un economista nemico del neoliberismo come il Nobel Joseph Stiglitz aveva deciso di schierarsi, sia pure indirettamente, in favore del cambiamento annunciato («Come dice la Bibbia non c’è nulla di nuovo sotto il sole, ma il contesto è decisamente nuovo»), mi sono convinto a riproporre l’idea-speranza ricordata da Dahrendorf e proposta oltre 40 anni fa dal sociologo americano Daniel Bell nel suo Cultural Contradictions of Capitalism: «Non torneremo al capitalismo di risparmio, ma a un ordine in cui il soddisfacimento dei bisogni è coperto dal necessario valore aggiunto. Il capitalismo di debito deve essere ricondotto a una misura sopportabile. È necessario qualcosa come un “capitalismo responsabile”, in cui risuoni soprattutto la prospettiva di medio periodo, ovvero quella di un nuovo rapporto col tempo». Come sosteneva dieci anni fa Dahrendorf, per uscire dalla crisi e rigenerare il capitalismo è da lì che occorre ripartire.