Quando ho cominciato la mia attività, sessant’anni fa, in Ticino si lavorava anche il sabato mattina. Poi, abbastanza rapidamente, la settimana lavorativa si ridusse a 5 giorni senza che insorgessero grossi problemi. Questo perché la riduzione dell’orario di lavoro senza riduzione del salario si rendeva possibile grazie all’aumento della produttività che, in quegli anni, era abbastanza sostenuto. Da allora la durata del lavoro, eccezion fatta per il numero delle settimane di vacanza, non è più stata, almeno da noi, all’avanguardia delle rivendicazioni sindacali. In altri paesi, spesso confrontati con tassi di disoccupazione elevati, i sindacati e i partiti della sinistra hanno invece chiesto più volte che la durata del lavoro settimanale fosse ridotta.
Conosciutissima è la riforma che ha introdotto la settimana di 35 ore, adottata dal governo francese sotto la presidenza di Mitterrand. Meno noti sono invece gli esperimenti che sono stati portati avanti in altri paesi, spesso su iniziativa sindacale o, addirittura, per volere di singoli datori di lavoro illuminati. Nel corso degli ultimi anni hanno fatto discutere in particolare gli esperimenti di riduzione della durata del lavoro realizzati in Islanda da enti pubblici come la città di Reykjavik e l’amministrazione pubblica nazionale in collaborazione con il sindacato del settore pubblico BSRB. In queste istituzioni, che occupano qualche migliaio di dipendenti, si è introdotta una riduzione della settimana lavorativa a 35-36 ore senza riduzione dello stipendio. Sindacati e datori di lavoro hanno poi esaminato e fatto esaminare anche da esperti esterni le conseguenze di questa misura in materia di produttività e di partecipazione al lavoro.
In generale hanno potuto accertare che per i lavoratori la riduzione dell’orario di lavoro ha rappresentato un importante miglioramento della qualità di vita. Parallelamente hanno anche constatato che le aziende che hanno introdotto questa riforma non hanno subito riduzioni della produttività anzi, in più di un caso, le prestazioni dei lavoratori sono aumentate. Inoltre gli studi su questi due esperimenti islandesi mostrano che la riduzione dell’orario di lavoro non ha determinato – come è stato invece il caso in Francia – né un aumento delle ore straordinarie, né tanto meno un aumento dell’occupazione.
Ovviamente non tutti i commentatori di questi esempi sono d’accordo per riconoscere che sono stati un successo. Alcuni sostengono che i progressi nella produttività sono da attribuire al fatto che la produttività in Islanda non era molto elevata e che quindi vi erano grandi potenzialità di miglioramento. Altri sostengono invece che la riduzione dell’orario di lavoro non ha che un impatto iniziale positivo sulla produttività. A più lungo termine è invece probabile che l’aumento della produttività rallenti e che le aziende siano obbligate a creare nuovi posti di lavoro per compensare la riduzione dell’orario settimanale. Altri critici affermano invece che il miglioramento della produttività dei primi anni è stato ottenuto perché i lavoratori si sentivano osservati e quindi si sforzavano di fare meglio e di più durante il periodo in cui erano sotto osservazione. Quando l’attività lavorativa tornerà ad essere routinaria è di nuovo probabile che l’aumento di produttività rallenti o scompaia.
Come è sempre il caso quando si tratta di esperimenti, i risultati ottenuti fanno discutere perché, purtroppo, possono dissolversi nel tempo. Da parte loro i partigiani della riduzione della durata del lavoro settimanale possono far valere che fino ad oggi le riduzioni dell’orario di lavoro non sembrano aver provocato grandi scompigli sia a livello dell’organizzazione del lavoro nelle aziende, sia a livello di redditività. Bisogna comunque riconoscere che ogni esperimento in questo campo è una nuova prova: i suoi esiti, quindi, non possono essere valutati sulla base dell’esperienza fatta nel corso degli ultimi due secoli in materia di riduzione della durata del lavoro.
Una settimana lavorativa di 36 ore?
/ 25.10.2021
di Angelo Rossi
di Angelo Rossi