Ha ragione chi fa notare che non bisogna fare troppa retorica sul personaggio di Kamala Harris. Non è esattamente una campionessa delle classi sfavorite, un’immigrata giunta dal Terzo mondo con la valigia di cartone. Il padre è un professore di economia di Stanford, la madre una ricercatrice di Berkeley, due tra le università più prestigiose (e costose, per gli allievi) al mondo. Lei stessa è senatrice dopo essere stata Attorney General della California, una carica ibrida tra magistratura e governo di grande potere, da lei esercitata con giusta severità. Insomma, non si tratta di un outsider assoluta. Però questo non toglie nulla alla novità del suo profilo.
Fino a non molto tempo fa, gli aspiranti presidenti degli Stati Uniti dovevano essere wasp: bianchi (white), anglosassoni, protestanti. Un solo presidente, il cattolico (per discendenza familiare più che per convinzioni personali) John Fitzgerald Kennedy, non coincideva con questo profilo; e non ha fatto una bella fine.
Poi venne Barack Obama. Prima di essere eletto, tenne un memorabile discorso in cui si proponeva di esaurire una volta per tutte la questione della razza. Obama non si è mai presentato come il primo presidente afroamericano, quale peraltro era. Ha sempre sostenuto che il colore della sua pelle non fosse poi così importante, e in ogni caso non doveva essere giudicato per questo, né in modo positivo né in modo negativo. Presentava se stesso come un presidente progressista, di cambiamento: questo e soltanto questo contava.
In realtà, non è andata così. Gli Stati Uniti non sono (ancora) un Paese postrazziale. La vittoria di Donald Trump nasce anche in questo modo: non tanto perché il presidente abbia schiacciato l’occhio alla piccola minoranza dei suprematisti bianchi, quanto perché ha assecondato un sentimento di rivalsa abbastanza diffuso tra il ceto medio e la classe operaia delle aree post-industriali, che gli ha dato la vittoria in Stati dove peraltro aveva vinto per due volte (2008 e 2012) Obama: Michigan, Wisconsin, Pennsylvania, Ohio. Anche i moti seguiti all’assassinio di George Floyd per mano di un agente di polizia bianco a Minneapolis hanno confermato che la questione è tuttora una ferita aperta nel corpo della società americana.
Anche per questo la scelta di Kamala Harris, figlia di un giamaicano – che si chiama Donald come il presidente – e di un’indiana di etnia Tamil resta un fatto significativo, innovativo, coraggioso. È un segnale di apertura a strati sociali che si sono finora sentiti inclusi solo in parte nel sogno americano, in quella condizione di rischio e di opportunità in cui vivono coloro che in epoche e modi diversi sono arrivati negli Stati Uniti.
E poi è una donna. Non è la prima volta che una donna è candidata alla vicepresidenza. Era già accaduto a un’italoamericana, Geraldine Ferraro, e alla governatrice dell’Alaska, Sarah Palin. Ma la prima era condannata alla sconfitta: nel 1984 Walter Mondale fu spazzato via da Ronald Reagan, e lei con lui. Sarah Palin collezionò una gaffe dopo l’altra e contribuì nel 2008 ad affossare la candidatura di John McCain, battuto proprio da Obama.
Kamala Harris ha invece ottime possibilità di vittoria. Non solo: il ruolo di vicepresidente non è mai stato tanto importante come adesso. Perché Joe Biden ha 77 anni e non li porta neppure tanto bene: se fosse eletto, difficilmente correrebbe per un secondo mandato; e a quel punto la sua vicepresidente potrebbe trovare porte aperte. Anche per questo Trump ha già cominciato ad attaccarla. Va detto però che la Harris non appartiene all’ala estremista e radicale del partito democratico, quella per intenderci della popolarissima (a sinistra) Alexandria Ocasio-Cortez; è una figlia del partito, a cavallo tra la Clinton-machine (più centrista) e il clan di Obama, riformista ma sempre attento a respingere le istanze socialisteggianti e segnate dal rancore sociale.
Ciò detto, l’ascesa di Kamala Harris è una buona notizia, in un contesto che resta difficilissimo. Noi europei non abbiamo la percezione piena di quel che sta accadendo in America. Dopo l’11 settembre ci dicemmo che sarebbe cambiata la storia, che nulla sarebbe più stato come prima. Dopo pochi giorni, però, lo spazio aereo americano fu riaperto; anche se passarono anni prima che il traffico tra le due sponde dell’oceano tornasse ai livelli precedenti. Oggi la situazione è incomparabilmente peggiore. Da cinque mesi gli americani di fatto non possono venire in Europa, e gli europei di fatto non possono andare in America. Non era mai accaduto nella storia. Ormai è evidente che il caldo indebolirà il virus, ma non lo farà scomparire. Fino a quando non ci sarà un vaccino che funzioni e sia ampiamente distribuito, un ritorno alla normalità sarà impensabile. E ci vorrà molto altro tempo per recuperare il livello degli scambi commerciali e del traffico dei passeggeri che conoscevamo.
Quanto a Trump, è molto probabile che la recessione post-Covid e il suo atteggiamento ondivago e inadeguato gli costeranno la Casa Bianca. Ma il compito di Biden sarà molto difficile. E pure gli americani hanno qualche dubbio che l’uomo sia all’altezza della situazione. La speranza è che Kamala Harris possa conferire alla sua candidatura quell’aura di energia e di freschezza che finora è mancata.