Cara Silvia, leggo sempre la Stanza del dialogo e su qualche questione che non riesco a sbrogliare capita di chiedermi : «chissà che cosa ne pensa Silvia?». Finalmente questa volta ho deciso di lasciare le ipotesi e domandartelo davvero.
Sono un’ infermiera di 35 anni, e puoi immaginare quale sia stato il mio impegno in questi mesi si pandemia.
Ma ora, che stiamo uscendo dall’emergenza, mi pongo un problema che diventa sempre più urgente.
Il problema non è da poco: avere o non avere un figlio? Mio marito è indifferente e rimanda a me la scelta. Lui sta bene con me, con o senza figli.
So bene che dai 35 anni in poi cala progressivamente la curva della fecondità, ma perché mai dovrei subire il ricatto dell’urgenza e mettere al mondo una creatura? Per quali motivi?
L’equilibrio della biosfera è compromesso, una grave crisi economica probabile, la fiducia nel futuro incrinata, i rapporti umani ingiusti e così via. Perché allora dire sì a una nuova vita? Attendo la tua risposta e ti ringrazio. / Elisa
E io ti rispondo, cara Elisa, capovolgendo la domanda: « Perché no?»
È vero tutto quanto elenca la tua lucida analisi ma altrettanto vero che l’umanità ha conosciuto momenti peggiori. Se siamo così allarmati è perché abbiamo raggiunto, almeno sul piano della conoscenza, maggior responsabilità morale e più diffusa sensibilità ecologica. Convengo che il pianeta è gravemente malato e la prognosi riservata ma possediamo conoscenze scientifiche, risorse tecnologiche, mezzi di trasporto e di comunicazione, progetti condivisi di ricerca e di impegno impareggiabili rispetto al passato. Nonostante mille tensioni, l’Europa sta mostrando una solidarietà inaspettata rispetto alle sorelle in difficoltà e , come non smetto mai di ricordare, la Svizzera è tra i Paesi più generosi nell’aiuto alle popolazioni più povere del mondo.
In particolare, i nostri rapporti interpersonali si sono rivelati , nei duri mesi di lock-down, più attenti, premurosi e solidali del solito. Ma non è su questo piano, sui dati oggettivi, che riuscirò mai a convincerti. Ti dirò piuttosto che tutte le madri, che ho avuto modo di ascoltare in tanti anni di esperienza personale e di attività professionale, hanno sempre riconosciuto nella maternità l’esperienza più positiva della loro vita, comprese quelle che potevano vantare grandi successi professionali. Se non riusciamo a prevedere la grandezza, la sacralità del «dare alla luce» è perché la modernità non sa valorizzarla e rappresentarla com’è accaduto, ad esempio, nel Rinascimento. Basta evocare la produzione pittorica dedicata alla Madonna.
Solo nella seconda metà del Novecento, affidata interamente alla gestione medica, la procreazione perde desiderabilità in confronto ad altri valori come il successo sociale, la ricchezza, la popolarità, la bellezza, sostenuti e diffusi dai mass-media. La fecondità femminile, per secoli, considerata un effetto dell’istinto e una conseguenza del matrimonio è diventata, grazie alla diffusione di presidi anticoncezionali sicuri, una scelta razionale e cosciente. Ma scegliere non è mai facile in quanto comporta la rinuncia ad altre possibilità. Tuttavia accade ancora che il desiderio di un bambino s’imponga senza essere progettato, che una prefigurazione del nascituro compaia all’improvviso nel teatro del sogno. È il modo con cui si manifesta un desiderio che si radica dell’inconscio e sboccia nelle terre di mezzo tra la mente e il corpo.
Il corpo femminile predisposto alla generazione da un grembo cavo, da organi fatti per nutrire, da braccia per accogliere, da un viso particolarmente empatico e speculare. Certo tutto questo non costituisce un dovere. L’autodeterminazione è una conquista irrinunciabile che non esime tuttavia dall’interrogarci, dal chiederci quale sia il nostro più segreto desiderio e in che misura siamo condizionate dalla società in cui viviamo. La conoscenza di sé comprende anche la parte in penombra della mente: la fantasia, il sogno, il sintomo.
Purtroppo mancano, nella fretta della vita moderna, ambiti di silenzio, di riflessione, di confidenza. La trasmissione delle esperienze da una generazione all’altra si è interrotta e il filo rosso della maternità, che connetteva madre e figlia, sembra ormai reciso.
In sostanza, cara Elisa, quello che cerco di dirti è che, rinunciando a un figlio, eviti sì una grande responsabilità, forse la più grande, ma con essa anche una occasione di impareggiabile felicità.