Leggevo, non molti giorni fa, che nelle facoltà universitarie svizzere di medicina si è registrato un nuovo record: le domande di iscrizione per il semestre autunnale 2017 ammontano a più di seimila. Un così elevato numero di aspiranti dottori è certamente comprensibile: se c’è una professione nella quale il rischio di disoccupazione è pressoché inesistente è certamente quella del medico.
La nostra è – come ormai comunemente si dice – una «società medicalizzata». La medicina ha fatto enormi progressi e la salute se ne avvantaggia con evidenza: basta pensare al crollo del tasso di mortalità che, in un passato non tanto lontano, era ancora molto elevato; dal 1900 ad oggi la speranza di vita in Svizzera è praticamente raddoppiata, passando da 46,2 a 80,5 anni per gli uomini e da 48,9 a 84,7 anni per le donne.
Ma ogni conquista di quel che chiamiamo «progresso» ha un suo prezzo, o, se si vuole, un rovescio della medaglia. A parte questioni pratiche non da poco, come l’aumento vertiginoso delle spese sanitarie e dei premi delle assicurazioni contro la malattia, c’è una tendenza psicologica che sembra espandersi in misura costante: l’ansia per la propria salute, la paura d’ammalarsi, il bisogno crescente di rassicurazioni mediche.
Sono passati quarant’anni da quando Ivan Illich pubblicò un libro che a quel tempo fece scalpore: Nemesi medica. Illich era allora famoso, e le sue opere furono libri di culto, sull’onda lunga del Sessantotto, insieme a quelli di Marcuse e di Mao. In quel libro, Illich si scagliava con la sua consueta furia contro la medicalizzazione crescente della società e sosteneva che l’illusoria ambizione di produrre una salute migliore costituisce «una malattia pericolosa e contagiosa, indotta dalla professione sanitaria». Riprendo ora in mano quel suo libro e lo trovo infarcito di non poche inesattezze, di ipotesi smentite nel seguito del tempo e di analisi unilaterali che conducono a esagerate generalizzazioni; e tuttavia, la sua lettura dell’avanzata dell’ossessione salutistica non è priva di fondamento. Anche la tendenza, denunciata da Illich, a ricorrere sempre più a interventi medico-farmaceutici anziché a uno stile di vita salutare può essere attendibile. Una simile tendenza è del tutto compatibile con la dipendenza psicologica che si va sempre più affermando in molti aspetti della vita, e che induce a fare sempre meno ricorso al buon senso, alle risorse dell’organismo e della volontà, per affidarsi piuttosto ai rimedi scientifici e tecnici, dagli psicofarmaci agli psicoterapeuti. Nella civiltà tecnologica, il ricorso all’«esperto» ha ormai sostituito quel «darsi da fare» che una volta permetteva magari di risolvere non pochi problemi pratici ed esistenziali. E, d’altra parte, la mentalità consumistica agisce anche nell’ambito della salute come in tutti gli altri: se l’offerta di beni di consumo è allettante, quella della pillola che ti garantisce la salute non lo è certo da meno.
Resta dunque vero che quella della salute può essere vista come una delle ossessioni dominanti del nostro tempo. Non a torto il medico tedesco Manfred Lütz parla di una Gesundheitsreligion come del culto del nostro tempo. «I nostri antenati – dice – costruivano cattedrali, noi costruiamo cliniche. I nostri antenati facevano genuflessioni, noi facciamo flessioni e torsioni del busto. I nostri antenati salvavano la loro anima, noi la nostra figura corporea». Non c’è dubbio che con questa deviazione di rotta la salute della popolazione ci abbia guadagnato; ma i dati sul crescente ricorso a psicoterapie, ansiolitici e psicofarmaci mostrano con evidenza che un’ottima condizione fisica non garantisce una condizione di completo benessere.
Sia chiaro: non sto affatto dicendo che, in caso di malattia, si debba «prenderla con filosofia». Come diceva La Rochefoucauld, «La filosofia trionfa facilmente sui mali passati e sui mali futuri; ma i mali presenti trionfano su di lei»: dunque, quando si è malati, non è alla filosofia, ma alla medicina che si deve fare ricorso. Ma guastarsi il piacere di vivere coltivando l’ansia di ammalarsi – questo sì richiederebbe il correttivo di qualche massima di saggezza e, magari, di una moderata dose di fatalismo. Perché è pur sempre vero che c’è una malattia alla quale ancora non s’è trovato rimedio: una malattia congenita, lentamente degenerativa, progressivamente invalidante e, alla fine, con esito letale nel 100 per cento dei casi. È la vita.