Cara Silvia,
ti leggo da sempre e ti considero un’amica per cui ti scrivo quello che non confiderei a nessuno.
Sette anni fa la piccola Francesca, nata in India, che avevamo adottato nel 1975, ci ha annunciato, dopo un anno di matrimonio, di essere in attesa di due gemelli. È stata una gioia grandissima, il coronamento di un matrimonio felice e di una esistenza realizzata. Purtroppo, poco dopo, un certificato medico ci avvertiva che uno dei due feti, la femmina, era affetto dalla sindrome di Down. In quel momento sono stato colpito da un pugno nello stomaco e travolto da una rabbia cieca contro la sorte, contro quel maledetto cromosoma 21 e, in più, contro me stesso. Per la prima volta mi trovavo a esprimere cattivi sentimenti ed emozioni negative. Non ero dunque la brava persona che credevo di essere. Sono giunto al punto, se mia moglie non mi avesse fermato, di chiedere a Francesca di interrompere la gravidanza senza rispettare la sua serena accettazione degli eventi. Pensavo fosse solo una conseguenza del fatalismo indiano mentre mi sarei ben presto accorto che esprimeva un profondo, coraggioso amore materno. Chi non ha avuto coraggio è stato invece il marito di Francesca che ha preferito darsela a gambe.
Le difficoltà di accudire una puerpera e due neonati, hanno impegnato totalmente mia moglie lasciandomi in preda a una cupa, profonda disperazione. Non parlavo più e niente m’interessava. I commenti di amici e conoscenti non facevano che irritarmi. Non sopportavo né la compassione di circostanza né il falso ottimismo. E mentre frequentavo regolarmente Leo, il gemello sano, sfuggivo Lisa, la nipotina «malata». Chi mi ha salvato è stata Lisa stessa, la sua vitalità, il fatto che fosse felice di ogni piccolo progresso come camminare, mangiare da sola, pronunciare le prime parole, partecipare ai giochi del fratello e soprattutto, lo confesso, la gioia che esprimeva ogni volta che ci incontravamo. I due monelli sono andati insieme al Nido, poi all’Asilo e ora in prima elementare. Mi sono così accorto che le loro «prime volte» non erano diverse da quelle di tutti gli altri bambini. E ho finalmente compreso che, non solo i figli ma anche i nipoti, devono essere accettati e amati per quello che sono, in quanto persone uniche e non l’incarnazione dei nostri ideali. Ho imparato man mano a conoscere Lisa, a guardare il mondo con i suoi occhi e, grazie a lei, a riconoscere il valore di un bambino «imperfetto». Adesso, che le dedico il mio tempo, mi sento una persona migliore.
Con questa confidenza vorrei, cara Silvia, confortare e sostenere i nonni che stanno provando, come è accaduto a noi, la difficoltà di accogliere e amare incondizionatamente un nipotino disabile che, con la sua fragilità, ci chiede di ricominciare proprio quando, ormai stanchi, pensavamo di concludere la nostra attività. Grato dell’ascolto, invio a tutti i migliori saluti e auguri. / Nonno Franco
Caro Franco che dire? Sono commossa di ricevere una testimonianza così sincera, di conoscere una persona capace di riflettere sui propri sentimenti negativi, sui pregiudizi che ci accecano e di superarli. Certo un grande incoraggiamento ti è venuto dalle donne di casa: una moglie capace di donarsi senza remore, una figlia pronta a essere mamma sempre e comunque e infine Lisa, piccola-grande nipotina. I bambini, nonostante la loro fragilità, o forse proprio per questo, sono capaci di sedurci e, prendendoci per mano, di portarci a loro. Di fronte a un presente inquietante e a un futuro minaccioso, non deve essere stato facile abbandonare le difese immunitarie che ti impedivano di ammettere la realtà e accettare il dolore. Sulla tua solare biografia è scesa all’improvviso l’ombra dell’insuccesso e non ci sarà la conclusione trionfale che ti attendevi. In compenso la tua persona ne esce più viva e più vera. La storia non è fatta da individui perfetti, da personaggi ideali ma da chi cerca, a fatica, di realizzare il meglio di sé prendendosi cura degli altri, i deboli e fragili. Ora, ritrovata la serenità, ti rimane il compito di recuperare il padre dei gemelli, un uomo vulnerabile che, incapace di reggere alla delusione di una paternità «imperfetta», si è allontanato da voi. Ma i bambini, crescendo, avranno sempre più bisogno di lui e, anche se non tornerà a essere il marito di Francesca, potrà comunque svolgere la necessaria funzione di genitore. La famiglia è più equilibrata quando tutte le caselle sono occupate e i figli non si sentono abbandonati. Tra il tutto e il niente, l’ideale e il reale, resta lo spazio di un impegno parziale in cui ciascuno dà quello che può e riceve quello che merita.
Infine grazie per aver mostrato che il cammino del bene non è mai sbarrato e che, prendendoci cura degli altri, curiamo anche noi stessi.