Una miliardaria e una filantropa atipica

/ 29.11.2021
di Paola Peduzzi

Nei suoi 25 anni di matrimonio, MacKenzie Scott è stata un’ambasciatrice solerte e generosa di Amazon, l’azienda che ha reso lei e suo marito Jeff Bezos la coppia più ricca del mondo. Era MacKenzie alla guida dell’auto che nel 1994, un anno dopo il loro matrimonio, li portava a Seattle: suo marito era di fianco a lei, lavorava a un business plan che avrebbe trasformato una piccola libreria online nel colosso che è Amazon. Oggi MacKenzie ha 50 anni, ha divorziato nel gennaio del 2019 da Bezos in modo «amichevole», o almeno così racconta, si è risposata nel giugno scorso con Dan Jewett, il professore di scienze dei suoi 4 figli in un liceo di Seattle, e con il suo divorzio ora ha un patrimonio netto di 60 miliardi di dollari, cosa che la rende la ventiduesima persona più ricca del pianeta. Ma come scrive «The Economist» MacKenzie è una «miliardaria atipica», una filantropa della porta accanto, discreta, generosa, che fa donazioni a tante associazioni che poi gestiscono i soldi nei loro progetti senza passare da una fondazione. In 12 mesi, fino al giugno scorso, aveva donato 8,6 miliardi di dollari, e ha firmato il «giving pledge», la promessa di rimettere in circolazione gran parte del suo patrimonio.

MacKenzie è sempre stata molto riservata e il suo sogno era fare la scrittrice. Scrisse il suo primo libro a 6 anni, ha studiato scrittura creativa a Princeton con Toni Morrison che ha sempre detto cose stupende su questa sua allieva volenterosa, e ha pubblicato due libri, nel 2005 e nel 2013. Raccontano entrambi storie dolorose, i personaggi sono femminili anche se nel primo romanzo la voce narrante è un uomo, ci sono pochi dialoghi, nessuno dice mai quel che pensa veramente. In un’intervista famosa della coppia nel 2013 MacKenzie disse che amava i paradossi e gli errori, le cose in cui inciampi nella vita che sul momento sono faticose ma che poi si rivelano decisive per i cambiamenti più importanti. Rivedendo oggi quella conversazione, pare quasi che anticipasse il suo divorzio.

La vita post Bezos della ex moglie è fatta sempre di molta privacy (se paragonato al divorzio dei Gates, quello dei Bezos è molto scarno di pettegolezzi). Alcuni dicono che si sia rimessa a scrivere, ma di certo quel che si vede è la sua filantropia. Si fa consigliare da alcune società di consulenza senza mettere in piedi una fondazione propria. Le donazioni sono spesso fatte a organizzazioni di medie dimensioni, molte si occupano di uguaglianza di genere e di razza, ma anche alle banche del cibo. Il mondo no profit spesso si lamenta del fatto che, quando ci sono donazioni così ingenti, c’è anche un controllo rigido sulla destinazione dei fondi. Vengono finanziati certi progetti ma a volte la struttura delle organizzazioni patisce: mancano i dipendenti, manca la cancelleria, si fa fatica a pagare gli affitti. Un terzo dei gruppi finanziati dalla ex signora Bezos ha utilizzato i soldi ricevuti per fare nuove assunzioni o investimenti in tecnologia per operare con più efficienza. Anche i report da consegnare per spiegare che ne è stato delle donazioni sono più snelli rispetto a quelli usualmente richiesti dai donatori: bastano poche pagine, ha spiegato MacKenzie, per sapere se le cose hanno funzionato. Ha anche dato un nome al suo approccio: «seeding by ceding», seminare dando in cessione il campo di semina, perché quel che conta è che poi ci sia un’utilità collettiva. Che fosse intenzionale o no, MacKenzie ha rivoluzionato il modo di fare filantropia in America, ridimensionando la burocrazia di solito predominante in questo ambito. E il suo modello è pure contagioso: il suo ex marito, che il «giving pledge» non ha voluto firmarlo, si è poi messo invece a fare donazioni nel modo snello e diretto della madre dei suoi figli.

L’unica ombra che resta su questa filantropa atipica è la mancanza di trasparenza: lei dice che in realtà è l’assoluto bisogno di privacy a determinare questa sua segretezza, ma le lamentele non mancano. Non si sa con chi lavora, non si sa come contattarla, non si sa bene nemmeno chi siano i beneficiari, tanto che ci sono già dei «fake» che girano utilizzando il suo nome e approfittando di questa opacità. Alcuni dicono che questo metodo non è sostenibile né apprezzabile: se si vuole colmare il divario tra ricchi e poveri, se si vuole anche togliere il sapore amaro che si porta dietro l’ultraricchezza nel mondo, è necessario essere il più trasparenti possibile. Per ora MacKenzie su questo resiste: preferisce far parlare i progetti che finanzia e la loro utilità.