Una liberazione che fa discutere

/ 25.05.2020
di Aldo Cazzullo

La liberazione di una giovane donna, tenuta prigioniera da un gruppo terroristico per un anno e mezzo in terra straniera, è sempre una buona notizia. A volte, nei commenti sentiti e letti in Italia in queste settimane a proposito della vicenda di Silvia Romano, si è riaffacciata l’antica mentalità per cui le donne dovrebbero stare a casa, e se incappano in una disavventura «se la sono andata a cercare». Si tratta di una mentalità da respingere con nettezza e da superare.Un conto però è una buona notizia; un’altra una vittoria nazionale da celebrare.

Non è questo il caso. Non mi pare lesa maestà criticare la corsa ad annunciare la liberazione di Silvia Romano via twitter, prima ancora di avvertire la famiglia, e poi la gara ad andare a prenderla in aeroporto, con il presidente del Consiglio che è parso contendere la photo opportunity al ministro degli Esteri con mascherina tricolore. Bene ha fatto invece il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, il filoatlantico del governo, a non farsi vedere.Purtroppo, l’Italia non ha sgominato gli assassini di Al Shebaab; li ha finanziati con il denaro pubblico. Ne valeva la pena per salvare una vita; ma in questi casi la discrezione è preferibile all’ostentazione. Quanto alle conversioni, sono sempre un affare del cuore, e quindi privato; è legittimo però chiedersi quanto sia libera la scelta di convertirsi in prigionia alla religione dei carcerieri. Lo slancio umanitario è sempre da apprezzare: non possiamo dire a ogni occasione «aiutiamoli a casa loro», e poi lamentarci di chi tenta di farlo.

Ma è doveroso, anche per il futuro, ragionare bene prima di affidarsi a una ong qualsiasi.Un conto è andare in Africa, ad esempio, con Sant’Egidio: forse l’organizzazione non governativa più radicata nel continente, dove è presente da decenni, dove è in grado di valutare opportunità e pericoli, in Paesi che conosce bene e talora ha contribuito a pacificare. Un altro è affidarsi a una ong semisconosciuta, che all’evidenza non ha saputo difendere Silvia.Nei giorni successivi alla liberazione, in Italia è accaduto anche di peggio. Gli imam si sono contesi la convertita, che ha assunto il nome di Aisha. I soliti odiatori le hanno augurato la morte, lanciando pure bottiglie contro la sua casa.

L’atteggiamento della ragazza non ha brillato per accortezza, dalla veste islamica esibita dopo la sua liberazione alle sue prime parole che rivendicavano la conversione; considerato l’enorme lavoro fatto per liberarla – e il sacrificio economico sostenuto dallo Stato in un momento drammatico per molti italiani – sarebbe stata preferibile un’attitudine diversa. Tuttavia una ragazza prigioniera per così tanto tempo va rispettata e lasciata in pace. I suoi odiatori invece vanno rintuzzati e condannati: le parole che hanno usato sono davvero inaccettabili.Non ha fatto gran figura neppure la ong che l’ha mandata in Africa, che non ha saputo spiegare né la mansione affidata a Silvia, né il modo in cui si è tentato – invano – di organizzare la sua protezione.

Qualcuno ha ricordato la legge con cui negli anni 80 e 90 lo Stato è riuscito a sconfiggere l’Anonima sequestri: bloccando i beni dei familiari, impedendo di pagare il riscatto. Una legge dura, quasi crudele, che però ha reso i sequestri non più remunerativi. Forse è necessario un ripensamento: se passa l’idea che l’Italia paga, gli italiani diventano bersagli, un po’ in tutto il mondo. Però si deve essere consapevoli che la linea dura può comportare un prezzo morale ed emotivo ancora più grande. Siamo disposti a pagarlo? E se un domani una famiglia dovesse chiedere conto allo Stato perché ha pagato per altri e non per il proprio caro?