Le controversie in corso sul significato dei monumenti eretti nelle città e nei luoghi considerati pregni di storia offrono l’occasione per rimettere a fuoco presenze mute e solitamente ignorate. Mute infatti non sono; anzi, statue, targhe e lapidi parlano, basta scrutarle e interrogarle a fondo, senza farsi sviare dalle apparenze e dalle giustificazioni di comodo. A questo compito, non sempre facile ma necessario, si sta dedicando con tenacia ammirevole la città di Zurigo, prima indagando le implicazioni dei maggiorenti cittadini nella tratta degli schiavi tra Sette e Ottocento, e poi rivolgendo l’attenzione alla provenienza della collezione d’arte di Emil Georg Bührle (1890-1956). In entrambi i casi, ha affidato le ricerche a studiosi attivi nella facoltà di storia dell’università, confidando nelle loro competenze scientifiche e nella loro indipendenza di giudizio. I risultati, come sempre succede quando si affrontano capitoli spinosi che si preferirebbe consegnare agli archivi per sempre, hanno dato luogo ad un’ampia discussione, esondando subito nella politica e nei potentati economici.
Il primo soggetto di questa ricognizione critica è stato il casato degli Escher, in particolare i predecessori del figlio più illustre e influente della città, ossia Alfred Escher, il «barone delle ferrovie», personalità vigorosa dell’élite liberale dell’Ottocento, finanziere e cofondatore del Politecnico. Lo studio ha evidenziato interessi e affari degli zii nell’isola di Cuba, dove nella piantagione di caffè di cui erano proprietari lavorava un certo numero di schiavi. Ma gli Escher non erano gli unici attori ad operare in questi promettenti mercati d’oltremare (caffè e cotone). Altri importanti esponenti della città avevano saputo inserirsi nei traffici che allora garantivano lauti profitti, intessendo relazioni con i poteri locali e con il sistema bancario. Certo, come hanno spiegato i ricercatori, si trattava di un «colonialismo senza colonie», ossia di una partecipazione indiretta alla deportazione dei neri dall’Africa verso le Americhe. Certo era comunque il ricorso allo schiavismo, mediato da fiduciari attivi sull’isola caraibica.
Il secondo tema che turba il sonno degli zurighesi riguarda il citato industriale Bührle, figura davvero singolare del Gotha cittadino: noto e omaggiato in vita non tanto come storico dell’arte (materia da lui effettivamente studiata in due atenei germanici) quanto piuttosto come fabbricante d’armi. L’azienda da lui fondata, la Oerlikon-Bührle, gli permise di accumulare un’enorme fortuna durante la fase di riarmo della Germania nazista. I cannoni Bührle erano molto richiesti, precisi e affidabili, e questo marchio di qualità accompagnò l’azienda anche nel secondo dopoguerra. Si calcola che tra il 1936 e il 1945 Bührle riuscì ad acquisire 150 dipinti, con una predilezione per l’impressionismo francese (Monet, Renoir, Degas, Cézanne). Tredici di questi, siccome provenienti da depredazioni, dovette poi restituirli ai legittimi proprietari. Alla fine la sua collezione d’arte raggiunse la ragguardevole cifra di 600 opere, un patrimonio inestimabile ora gestito dalla fondazione che porta il suo nome e che il Kunsthaus ha il compito di valorizzare. Gli appassionati d’arte ne possono ammirare una larga parte nella nuova ala del museo progettata dall’architetto inglese David Chipperfield. Problema: come far capire ai visitatori che questo tesoro è stato accumulato con i proventi derivanti dalla vendita di materiale bellico al Terzo Reich? Come rendere consapevole il pubblico che ogni quadro incorpora vicende oscure, drammi familiari, persecuzioni?
Alfred Escher ha avuto la sua statua sulla Bahnhofplatz e lì rimarrà anche se una parte della cittadinanza vorrebbe rimuoverla; la collezione Bührle è stata trasferita in un edificio che è esso stesso un capolavoro dell’architettura contemporanea. Rimane la questione morale. Si può alzare le spalle e passare oltre, oppure interrogarsi sugli intrecci del «Bührle-Zürich-Komplex», come lo chiama il responsabile della ricerca, lo storico Matthieu Leimgruber. Un complesso che chiama in causa non soltanto i singoli destini, ma anche l’intera élite industriale e finanziaria della città, teatro non innocente di molte operazioni rimaste sinora nell’ombra.
Una collezione che fa impressione
/ 31.01.2022
di Orazio Martinetti
di Orazio Martinetti