Una certa idea di cultura popolare

/ 03.04.2023
di Benedicta Froelich

Se si considera la storia del XX e XXI secolo, ci si rende conto di come, in un certo senso, nell’epoca della comunicazione di massa il termine «cultura popolare» sia sempre stato piuttosto controverso, nonché frainteso; in effetti, siamo abituati ad affibbiare a queste due parole una connotazione perlopiù denigratoria, prodotto di un’illusoria scissione tra quella che potrebbe essere considerata come high culture – esemplificata da letteratura, musica cosiddetta «colta» quale opera classica, ecc. – e forme meno «alte» di intrattenimento (fumetti, televisione, cinema commerciale, e così via).

Tuttavia, nel mondo attuale questa appare ormai come una definizione fin troppo legata a un ideale di stampo folcloristico che può, a volte, andare un po’ stretto; di fatto, oggi sono in molti a riconoscere come tale divisione sia inutile quanto fallace, poiché, in fondo, basata su una discriminazione: sull’idea che la cultura di massa non possa competere con quella «vera», nonostante l’influenza esercitata sulla maggior parte della popolazione – sicuramente su una sezione ben più ampia di quella che ha abitualmente accesso ai film di Bergman o alle opere di Umberto Eco. Allo stesso modo, si ignora il fatto che, nell’ambito del medesimo argomento, molte persone comuni si riconoscono molto più facilmente in un romanzo storico, magari acquistato all’edicola della stazione, che non in un lungo saggio accademico custodito in una biblioteca universitaria.

Ma cosa significa davvero, oggi, occuparsi di cultura popolare? Forse significa anche rendersi conto dell’inganno che una certa altezzosità post-sessantottina ha imposto all’opinione pubblica; chi scrive è infatti convinta che a fare davvero la differenza non sia il mezzo espressivo utilizzato, quanto piuttosto chi ne fa uso. È per questo che, a costo di suscitare scandalo, ammetto tranquillamente di non riuscire davvero a differenziare tra le migliori storie a fumetti di Carl Barks (noto come «l’uomo dei paperi», ovvero l’autore dietro la creazione del mondo di Donald Duck e compagni per conto della Walt Disney Company) e capisaldi della letteratura mondiale quali I Promessi Sposi o Guerra e Pace; e, di conseguenza, affianco volentieri sullo stesso scaffale i libri di Emilio Salgari e di Dostoevskij.

Questo perché l’impressione più forte è che, infine, la maestria, il talento e la genialità dell’artista vadano ben oltre la mera professionalità da questi mostrata in un determinato ambito; di conseguenza, la grandezza di un autore sta nell’essere in grado di superare i limiti (reali o presunti) presentati dal mezzo espressivo prescelto, per creare un capolavoro universale: non solo fruibile a tutti, ma in grado di travalicare qualsiasi classificazione o definizione di genere per divenire uno «specchio dei tempi» – il vero riflesso del mondo in cui viviamo. Perché questa, in fondo, è sempre stata la principale funzione della cultura popolare: fungere da cartina di tornasole per la società del proprio tempo. E benché molti si sentano oggi inclini a giurare che l’epoca attuale sia più che mai favorevole alla creazione di «miti pop» – a partire dagli assurdamente rilevanti influencer di YouTube e OnlyFans, fino ai più o meno appariscenti fenomeni da palcoscenico, invariabilmente tesi verso il totale autocompiacimento – non è esattamente l’invasione di figure pubbliche di riferimento a permettere di ottenere un’autentica, significativa interpretazione della realtà contemporanea.

E allora, dove si colloca esattamente la linea di demarcazione tra l’odierna pop culture e la cosiddetta «cultura popolare» di un tempo – tra i fenomeni del passato e, più semplicemente, i cult di oggi?

Ciò che questa rubrica si propone di fare è proprio indagare a fondo questo interrogativo, così da diffondere un’idea di cultura popolare che riesca idealmente a dissipare in parte l’alone di preconcetti e pregiudizi aleggiante intorno a questo termine, spesso difficile da collocare con precisione all’interno del panorama attuale; nella speranza di rivalutare quella che, in fondo, è una componente imprescindibile della nostra vita quotidiana – qualcosa di cui, volenti o nolenti, noi occidentali non potremmo più fare a meno.