Viviamo nell’epoca del sovranismo, parola che ha guadagnato terreno solo negli ultimi anni. Prima, come sostantivo armato del suffisso -ismo, nemmeno figurava nei dizionari della lingua italiana. Esistevano il sovrano (la sovrana) e la sovranità, ma non il sovranismo, inteso come ideologia che pone al centro, e sopra ogni altra considerazione, gli interessi del proprio Stato. La parola funziona. Fa presa e mobilita. Permette di coagulare consensi e spesso di vincere tornate elettorali. E se i sovranisti non sempre la spuntano, riescono comunque a condizionare le scelte dei rispettivi governi. Alle ultime Europee si è persino temuto che sfondassero il fronte popolar-democratico e social-democratico che sinora ha retto, in alleanza, il timone dell’Unione.
Ogni movimento politico nasce per contrastare un «nemico» (lo possiamo anche chiamare in modo meno bellicoso «avversario», ma la sostanza non cambia) e per colmare un vuoto. In Occidente il nemico storico è stato per oltre settant’anni il comunismo di marca sovietica; il collasso dell’URSS nel 1991, benché vissuto da buona parte della sinistra come una liberazione, generò un perdurante smarrimento, come se le porte dell’utopia si fossero improvvisamente chiuse. Moriva l’alternativa al sistema capitalistico, lasciando campo libero agli «spiriti animali», ai sostenitori del libero mercato privo di vincoli, in concreto ai «lupi di Wall Street», i filibustieri della finanza speculativa.
L’anno successivo nasceva nella città olandese di Maastricht l’Unione europea, con l’intento di rassodare i legami interni, progetto poi sfociato nel varo della moneta unica. Tuttavia il cammino non fu agevole, né per l’euro (osteggiato soprattutto dal Regno Unito, che mai lo ha introdotto), né per la Costituzione di cui l’Ue intendeva dotarsi, bocciata dai cittadini dei Paesi Bassi e della Francia. A partire dalla crisi del 2007/2008 gli ostacoli iniziarono a moltiplicarsi, per diventare materia di quotidiano conflitto, dalla distribuzione delle risorse all’imposizione di norme unitarie, promulgate dai detestati «eurocrati». Da ultimo, ad invelenire gli animi, si aggiunse la gestione dei profughi e dei migranti nel continente.
Ma il 1992 è stato un anno-spartiacque anche per la Svizzera e per la politica timidamente filo-europea perseguita fino a quel momento dal Consiglio federale: il 6 dicembre Popolo e Cantoni dissero no all’adesione allo Spazio economico europeo, un voto che spaccò il paese in due e che fece scricchiolare la coesione nazionale. Tornava a galla il secolare isolazionismo della Confederazione, l’antica diffidenza nei confronti delle istituzioni europee. Era come se nell’urna fosse ricomparso lo spettro della Società delle Nazioni voluta all’indomani della prima guerra mondiale e tristemente sfasciatasi negli anni Trenta sotto le picconate dei regimi totalitari.
Quel passaggio fu decisivo anche nel ribaltare gli equilibri politico-elettorali interni, perché mise le ali all’Unione democratica di centro, partito che da una posizione minoritaria raggiunse risultati prima inimmaginabili, fino a diventare la maggiore formazione del paese. Sotto la direzione del magnate Christoph Blocher, l’Udc riuscì a raccogliere consensi sia nelle periferie delle grandi città, sia nelle aree rurali, specie nei Cantoni germanofoni. Benché guidato da un miliardario – o forse proprio per questo – l’Udc seppe far breccia nelle file del ceto medio alle prese coi timori del declassamento sociale e persino tra gli operai che avevano sempre appoggiato l’indirizzo keynesiano della socialdemocrazia. In Ticino il testimone dell’anti-europeismo fu raccolto dalla Lega, permettendole di vincere tutte le consultazioni popolari che avessero per tema i rapporti con Bruxelles e ogni iniziativa che riguardasse la figura dello straniero, dai rifugiati ai frontalieri «topi nel formaggio».
Il prossimo 27 settembre sapremo se questa curva elettorale proseguirà la sua ascesa, riconfermando il primato stabilito il 9 febbraio 2014 (votazione sull’immigrazione di massa). Sappiamo già come andrà a finire in Ticino; aperto invece l’esito nel resto della Svizzera. Ma non sarà soltanto una partita di ritorno, per alcuni una rivincita. In gioco ci sarà anche una certa idea di Svizzera, un’idea culturale e morale nel solco della tradizione umanitaria del paese. Un orizzonte che i sovranisti tendono ad oscurare, ma che fa parte del nostro corredo storico fin dai tempi di Henri Dunant.