Una certa idea del Ticino

/ 09.11.2020
di Orazio Martinetti

Ormai il significato di «crisi» è nella mente di tutti: pericolo ma anche opportunità, interregno tra il noto e l’ignoto, punto di guado tra due sponde, la vecchia e la nuova. L’altra parola che ricorre nella discussione pubblica è «normalità». Uno stato che abbiamo lasciato per colpa della pandemia ma che ora vorremmo ripristinare al più presto. La normalità ci appare come un Eden perduto. Sogniamo tutti di premere il bottone «reset» per ritrovare il mondo di ieri, le vecchie abitudini, le antiche consuetudini. Come se ciò che abbiamo alle spalle fosse tutto da rimpiangere, e non da ripensare, ricostruire, rinnovare dalle fondamenta.

Al tema «quale Svizzera vogliamo» e, in subordine, «quale Ticino vogliamo», si dibatte da tempo. I meno giovani ricorderanno alcune ricerche condotte sullo scorcio del Novecento: alludiamo al volume Ticino regione aperta, nato all’interno del Programma 21 «Pluralismo culturale e identità nazionale» (1990), e al libro bianco dell’economista Carlo Pelanda Ticino 2015, commissionato nel 1998 dal Dipartimento economia e finanze. In quel decennio Confederazione e Cantoni non stavano per nulla sereni. Dopo il Trattato di Maastricht (1992), l’Unione europea aveva accelerato il passo verso l’adozione della moneta unica; seguirono, nel 2004, gli accordi di Schengen, atti a favorire la libera circolazione dei cittadini in tutto il territorio europeo, compreso quello elvetico. In questa marcia, che pareva trionfale e inarrestabile, la Svizzera temeva di rimanere ai bordi della strada, pulcino nero dentro un’allegra nidiata di pulcini bianchi. Nella società serpeggiava il timore che il motore economico del paese perdesse colpi, e che quindi non fosse più competitivo. Al Ticino poi si pronosticava un futuro ancora più fosco: quello di una «declino controllato», uno scenario che agli occhi della popolazione riportava le lancette dell’orologio indietro, negli anni precedenti la rapida crescita degli anni 60.

Nel nuovo secolo le cose sono andate diversamente, almeno a partire dal cortocircuito finanziario mondiale del 2008: meglio per la Svizzera, peggio per l’Unione. Anno dopo anno la marcia intesa ad assicurare una maggiore prosperità per tutti si è arrestata, portando alla luce lacerazioni interstatali e dissensi profondi tra i paesi del Nord e la fascia mediterranea, soprattutto in tema di giustizia sociale, politiche fiscali e gestione del debito pubblico. Da ultimo, a rimescolare le carte in tavola, è arrivata l’ospite inattesa, la morte con la falce, come nelle raffigurazioni medievali della danza macabra.

È quindi da salutare con favore ogni sforzo intellettuale che si proponga di confezionare un’armatura resiliente anche per regioni piccole come il Ticino; un cantone che per la sua collocazione geografica tra la barriera (alpina) e la frontiera (politica) ha sempre dovuto ingegnarsi per evitare di scivolare nel ruolo di colonia eterodiretta: corridoio di transito, periferia assistita, parco divertimenti della conurbazione di Zurigo.

A questo ripensamento si sono dedicati negli ultimi anni due gruppi di studio: Coscienza Svizzera e un cenacolo di riflessione coordinato dall’editore Giò Rezzonico, che da ultimo ha prodotto un «Manifesto per una trasformazione ambiziosa del Ticino». In estrema sintesi, il documento invita ad affrontare gli snodi strategici del cantone in un’ottica di «smart city», ossia di una rete urbana interconnessa, dialogante e attenta agli apporti delle nuove tecnologie. I settori individuati sono gli stessi che ora assillano i ticinesi: la mobilità, ora vicina alla paralisi; la fragilità del tessuto produttivo; la formazione delle nuove generazioni («Campus Ticino»), il sostegno alle iniziative innovative, le attese generate dai nuovi collegamenti ferroviari e dagli stabilimenti che sorgeranno a ridosso della linea. Il Manifesto individua anche gli attori principali di questa visione: i sindaci dei principali centri situati nel triangolo Locarno-Bellinzona-Lugano-Mendrisio-Chiasso. Dovranno essere loro le forze trainanti del cambiamento, loro a indirizzarlo e a governarlo. Rimane indefinito, per contro, il ruolo delle regioni di montagna, delle valli e dei villaggi a nord della capitale. I segnali non sono incoraggianti, soprattutto sul versante demografico e imprenditoriale. Vedere svuotarsi il Sopraceneri come una clessidra dovrebbe preoccupare anche i sostenitori delle «città intelligenti».