Un voto e l’effetto immagine

/ 01.10.2016
di Luciana Caglio

Si è rivelato efficace quello slogan «Prima i nostri» che, in un linguaggio chiaro e diretto, invitava gli elettori ticinesi a dare la precedenza alla manodopera locale, o residente in loco, rispetto ai candidati stranieri. Una rivendicazione che sembra ovvia, ispirata semplicemente al comune buon senso, buon consigliere per definizione. Come, a prima vista, ha dimostrato di essere, anche in questo caso. Infatti, una maggioranza, solida se pur non strepitosa, ha seguito, istintivamente, una parola d’ordine, che fa capo al naturale bisogno di autoconservazione. Quel voto rappresentava una sorta di farmaco per rimanere sé stessi. Però, assumendolo, si sono trascurati gli effetti collaterali, del resto prevedibili ed estesi, tali da compromettere l’esito stesso della cura. Così, mentre i benefici concreti di questa scelta politica non sembrano per domani, gli svantaggi sono già evidenti e stanno suscitando una pubblicità controproducente.

Si tratta di un danno d’immagine, che non è da poco, nell’era della comunicazione e del narcisismo da icona. E lo subisce, una volta di più, la Svizzera, sempre particolarmente esposta a questo rischio. Ecco che un episodio, di per sé modesto, poche migliaia di schede inerenti una questione locale, ha fatto notizia sul piano internazionale, ottenendo una risonanza non certo benevola. E proprio per via di uno slogan, semplice e semplicistico, che suona bene ma si presta a interpretazioni insidiose. Quel termine «i nostri», da preferire agli «altri», sarebbe un indizio di xenofobia o razzismo. Così è stata intesa, oltre confine, da gran parte dell’opinione pubblica.

La domanda viene spontanea. Come si spiega quest’attenzione puntigliosa o ironica o prevenuta nei confronti di un Paese, per altro sempre in testa nelle classifiche mondiali sul fronte della ricerca e dell’innovazione? Potrebbe essere il prezzo da pagare per i suoi privilegi, in quanto a benessere, sicurezza, buon funzionamento: lo ipotizza Diccon Bewes, giornalista inglese autore del bestseller Swiss Watching. Ma c’è dell’altro. Secondo l’autore, la cosiddetta patria di Heidi (che è poi anche quella di Rousseau, Dunant, Jung, Le Corbusier, ecc.) rimane un universo indecifrabile. Sia sul piano linguistico (non bastassero quattro lingue nazionali, è nato anche lo «swinglish», miscela di «schwytzerdütsch» e inglese) sia su quello politico, dove gli spetta il primato mondiale dei referendum. Motivo di confusione per gli osservatori stranieri. Come si è visto, appunto nella vicenda di «Prima i nostri». Anche sulle più autorevoli testate italiane, si è sempre parlato di «referendum», mentre si trattava di un’iniziativa per modificare la Costituzione cantonale. Soltanto il sito di Mauro Della Porta Raffo, scrittore e saggista varesino, nostro scrupoloso vicino di casa, ospitava un articolo del giornalista Roberto Ortelli in cui si spiegava la differenza.

A questo punto, si tocca un aspetto, che ha influito, e come, sul risultato della votazione del 25 settembre: ed è il fattore vicinanza che, per i ticinesi, si abbina al fattore distacco. Ne deriva una condizione difficile da definire e che probabilmente appartiene a tante popolazioni che vivono lungo i confini. Certo è che, da noi, questa realtà territoriale ha determinato, ormai, il retaggio delle nostre tradizioni e mentalità. Ne portiamo i segni che hanno, addirittura, creato categorie culturali e politiche opposte. Basti pensare a Mario Botta, Paolo Bernasconi, Alberto Nessi, da un lato, e ai redattori del «Mattino della domenica», dall’altro. Ci si trova, insomma, a vivere, in modi diversi, esibiti o segreti, una quotidianità a due facce, di unione e separatezza, per non dire di amore e odio. 

Eccoci, insomma, uniti dalla lingua, anzi dall’intimità del dialetto, dai piaceri della tavola, dalle abitudini televisive, dal tifo sportivo (quanti club Inter, Milan, Juve in Ticino!). Ma poi separati da una frontiera, che ha accentuato le diversità d’ordine politico ed economico, che possono sfociare in risentimenti e rivalità persino in rancori. E, infine, tradursi in un voto dagli effetti secondari un po’ ingombranti.