Situazioni di ordinaria frustrazione. In coda, in automobile, vorrei aprire il finestrino ma il pulsante elettronico non reagisce al mio comando. Istintivamente cerco la classica manovella ma scopro che non c’è. Non me ne ero mai accorta. Sto cucinando e all’improvviso i comandi delle piastre vanno in tilt. Anche qui, nessuna manopola a disposizione per un intervento manuale più che urgente. Il touch che impazzisce è un’esperienza abbastanza ricorrente, eppure ad ogni occasione riesce a sorprenderci, lasciandoci interdetti e anche un po’ increduli: ma è mai possibile che non funzioni?
Per non parlare poi di tutti quei dispetti, spesso altamente ansiogeni, che ci propina il telefono cellulare a cui abbiamo consegnato i molti frammenti della nostra vita. Gesti consueti fuori controllo suscitano in noi sentimenti di frustrazione. E questo accade perché la tecnologia, mentre continua ad alimentare la fiducia in un mondo sempre più disponibile, ci costringe ad accettare anche la sua inattesa indisponibilità. Una forma di resistenza, forse il segno inavvertito di un limite: non sappiamo più dove mettere le mani. Eppure alla capacità di controllare un mondo a nostra disposizione continuiamo ad offrire incondizionata fiducia. Gli attimi di frustrazione, forse anche di sospetto o addirittura di rifiuto, vengono perlopiù riassorbiti dall’atmosfera pervasiva di legami tecnologici sempre più performanti e soprattutto ineludibili.
Per cercare di dare un senso a queste ambivalenze, l’idea di un progresso tecnologico che promette meraviglie, seppure a volte disattese, andrebbe guardata un po’ più da vicino. E allora potremmo vedere che questo cosiddetto progresso si offre a noi piuttosto come una forma di continuo potenziamento. La civiltà della tecnica potenzia le sue prestazioni. Potenziamento non è però necessariamente progresso. Perché il progresso implica l’idea di una meta verso cui tendere, un fine, un altrove, un superamento del presente in cui intravvedere, appunto, un progresso nell’espressione del valore del vivere e del convivere. La tecnologia invece, nel suo progetto infinito di potenziamento, non necessita di un fine fuori di sé. Il suo sviluppo si presenta come il fine intrinseco di tutto il processo. Un fine autoreferenziale: lo abbiamo capito da tempo, i mezzi si sono trasformati in fini, consegnando il valore delle cose al loro volto utilitaristico. Questo valore autoreferenziale della tecnologia anestetizza molte domande di senso. Da quale idea di progresso per l’umanità è nutrito l’entusiasmo per il suo continuo potenziamento? Risposta non pervenuta! Eppure sarebbe auspicabile, forse anche urgente, porsi alcune domande. Chiederci quali siano le migliori risorse, da incoraggiare e da far progredire nell’espressione della nostra umanità.
Il che ci permetterebbe di individuare una soglia antropologica da cui orientare e scegliere il buon uso delle tecnologie, distinguendo, ad esempio, tra un’apprezzata funzione collaborativa e una loro presenza che potrebbe invece rivelarsi sostitutiva di alcuni elementi fondanti dell’umano. Il potenziamento autoreferenziale elude questi interrogativi di senso continuando ad alimentare il desiderio di controllo sulla natura e la fiducia nel fatto che ciò sia sempre possibile. Da qui nascono le piccole o grandi frustrazioni quotidiane e i momenti di disorientamento più o meno passeggeri. Alla fine però tutto si risolve tra le mani sapienti di un tecnico. O nei vortici della cosiddetta obsolescenza programmata: le tecnologie altamente sofisticate è meglio che durino poco perché altrimenti la logica dell’auto-potenziamento rischierebbe di incepparsi. Queste forme di frustrazione e di disorientamento al più ci suggeriscono qualche domanda sulla reale disponibilità della natura, ma spesso non arrivano ad aprire la strada ad un sentimento di incertezza. Poi invece arriva un virus a mettere in crisi in modo più profondo e subdolo la fiducia nella nostra reale capacità di poter controllare, e prevedere, le vicende di un mondo ritenuto sempre pronto a soddisfare le nostre richieste. Il virus ci sta spiazzando, facendo affiorare in noi sentimenti di incertezza e soprattutto di inadeguatezza nel governare la vita, la nostra e quella dell’altro. Sentimenti di inadeguatezza, anche, nel modo di abitare il mondo. Forse, pur nella sua malefica e aggressiva naturalezza, ci sta insegnando qualcosa.
Allo specchio della sua naturale presenza, invisibile quanto minacciosa, ci ritroviamo costretti ad accogliere, tra le nostre mani a volte divenute impotenti, i battiti inquietanti dell’incertezza.