Cara Silvia,
la leggo da sempre con grandissimo interesse e mi ha colpito la lettera della lettrice alla quale ha risposto questa settimana. (Si tratta della lettera con cui la signora Fernanda esprime il proprio disagio per una familiarità linguistica che considera impropria e inopportuna). Anch’io sono nonna, ex donna in carriera e quindi tirata su con una educazione molto stretta. Sicuramente la prima volta che qualcuno mi ha dato del tu sono rimasta a bocca aperta con sguardo a punto interrogativo. Ma a me ha fatto un effetto completamente diverso. Il mio io era cresciuto troppo e adesso è diventato piccolissimo, meglio adeguato ad un mondo che cambia velocissimamente in tutto e per tutto. Sono diventata molto più umile, ma anche ancora più solare. Abito da poco in un quartiere pieno di vicini «stranieri» che tutti danno il tu, ma danno anche sempre un bel saluto con un sorriso, che preferisco di gran lungo al lei. Va da se che non posso scappare dal fatto che io do ancora del lei, e sarà sempre, ma mi piace anche il tu di oggi.
Grazie per la rubrica e le auguro una buona e meravigliosa estate. / Alice
Gentile Alice,
la sua lettera riprende, in modo positivo, il problema suscitato da un uso del «tu» che non riconosce differenze e gerarchie . Nella mia risposta lo avevo interpretato come sintomo di una società appiattita nella comune banalità. Ma in conclusione auspicavo il sorgere di un ordine diverso. Ora la sua lettera sembra rispondere proprio a quell’invito. E nel modo migliore: non con una ideologia, ma con una testimonianza.
Lei ha reagito a un cambiamento, che non è solo linguistico, in modo autoplastico, modificando la sua identità, relativizzando il suo «Io», aprendo la mente e il cuore all’accoglienza dell’altro. Così facendo è diventata più solare sconfiggendo le ombre indotte da una educazione autoritaria e dal narcisismo sollecitato dal successo di una carriera manageriale.
Che cosa è accaduto perché si verificasse una simile metamorfosi, lo spiega in una lettera successiva, volta a sostenermi in un momento difficile: la morte di mio marito avvenuta l’11 marzo scorso.
Mi dispiace della sua tristezza, scrive, non avevo idea del suo lutto. Quando sono diventata vedova mi sono ritirata in una specie di eremo per elaborare il lutto, e ci sono rimasta per 10 anni, senza vicini, senza una strada di accesso ma ho imparato a cucinare sul fuoco, a fare le provviste per la neve, periodo che rimanevo bloccata. Avevo sempre solo la preoccupazione per i miei 4 cani e 7 gatti, che avessi bisogno di portarli dal veterinario durante la neve. Cresciuta e vissuta in grandi città, questi 10 anni hanno rappresentato un’ avventura che mi ha arricchita tanto.
Penso che ognuno deve trovare il suo proprio modo di elaborare il lutto, ma so che lei lo affronterà senza scappare. Mi creda, anche il lutto arricchisce. Con un grande abbraccio e simpatia. / Alice
Cara amica,
grazie della sua sentita partecipazione e dell’abbraccio che ricambio di cuore. Lei ha ragione: l’elaborazione del lutto è una vicenda intima e personale che alla fine, percorso il tunnel del dolore, può rivelare esiti positivi. L’importante è restare fedeli a se stessi, esprimere la propria creatività senza accettare passivamente i tempi e i modi indotti dalla tradizione e richiesti dalla società.
Il suo itinerario, fondato sull’isolamento, la riduzione all’essenziale e la meditazione, è approdato a una sorta di saggezza stoica che accetta l’esistente cercando di trarne il meglio per sé e per gli altri. Per una personalità liberata dalle scorie dell’egocentrismo il «tu» rappresenta allora un gesto di uguaglianza e fratellanza. Ma occorrerebbe essere capaci di ricambiarlo perché, a mio avviso, le relazioni paritarie o sono reciproche o non sono.
Nella nostra incapacità di rispondere allo stesso modo intravvedo una difesa dell’ «io», una resistenza rispetto al «noi» su cui dovremmo riflettere insieme. Comunque grazie per un intervento vivo e vero che fa procedere il dialogo.
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch