Grande scandalo tra gli adulti suscitano le feste organizzate dai giovani «che farebbero meglio a coprirsi il capo di cenere per rispetto verso le tante vittime della pandemia». Secondo me fanno benissimo a scrollarsi di dosso l’angoscia di un tempo che regala solo del tempo vuoto che non si sa come riempire. Per spiegare le mie ragioni devo prima svitare il coperchio di un piccolo cilindro di alluminio dopo averlo estratto da un cassetto della mia scrivania. E aspirare a lungo il profumo del suo contenuto.
Riaffiorano i ricordi di quando avevo sei anni, era il 1943 e l’Italia era in guerra da 3 anni. Con l’aiuto di un corto pennello dalle setole rigide, quella bianca Coccoina veniva spalmata sui quattro angoli di grandi fogli blu di una carta usata per fare i pacchetti di zucchero che allora era venduto sciolto. Quei fogli erano poi incollati ai vetri delle finestre per fare in modo che la luce non trapelasse all’esterno durante le ore di un coprifuoco che iniziava prestissimo. In quella grande cucina mia zia Emma, sorella 22enne di mia madre, organizzava con un piccolo gruppo di coetanei, maschi e femmine, casalinghe serate danzanti, con l’aiuto di una fisarmonica suonata da uno di loro.
Come avevano fatto quei ragazzi ad arrivare a casa nostra, malgrado il divieto di circolare per strade vigilate da pattuglie di tedeschi e di feroci camicie nere? Casa nostra si trovava in quello che era stato il ghetto degli ebrei di Asti. Fino al 17 febbraio 1848 quando Carlo Alberto aveva firmato le lettere patenti, gli ebrei non solo dovevano risiedere entro il recinto del ghetto, ma avevano l’obbligo tassativo di restare chiusi in casa dopo il tramonto. Da qui la necessità, per potersi muovere anche di sera, di prevedere fra una casa e l’altra dei corridoi sotterranei che, secoli dopo, avrebbero permesso di celebrare feste casalinghe nonostante i divieti.
Quei ragazzi cercavano di stare allegri e non pensare ai tanti lutti. Che colpa avevano se erano arrivati ad avere vent’anni quando l’Italia dichiarava guerra alla Francia e alla Gran Bretagna? Ballavano, bevevano e mangiavano. Il vino, nelle cantine di Asti non è mai mancato e per mangiare c’erano le fette di mele avvolte nella pastella e fritte nell’olio, portate a casa una volta alla settimana da mio padre, sergente maggiore di artiglieria alpina, in servizio presso la mensa ufficiali di Torino. Le uova erano a chilometro zero, scodellate da una gallina allevata sul balcone del cortile. Nel nostro condominio tutti allevavano animali commestibili: polli e conigli in primis. Il padrone di casa teneva un maiale nel sottoscala.
Ancora: se da una parte si deprecano le feste, dall’altra in Italia si piange sulle condizioni miserevoli dell’insegnamento, arrivando talvolta a dichiarare perso l’anno scolastico. Allora noi, studenti negli anni di guerra, quanti anni avremmo dovuto cancellare dal nostro curriculum scolastico? Non ricordo che qualcuno abbia azzardato quell’ipotesi. Si andava in classe due o tre giorni alla settimana, per poche ore ogni volta, interrotte dagli allarmi che ci facevano scendere nei rifugi, provocati dal passaggio di aerei che, partiti dal golfo ligure, andavano a bombardare Torino. Cessato l’allarme si ritornava in classe, salvo un’ora dopo, ritornare nel rifugio quando suonava una seconda volta per il passaggio degli aerei sulla via del ritorno. Per anni, dopo la fine della guerra, siamo andati a scuola per una settimana la mattina e per l’altra il pomeriggio. Nessuno allora ha mai parlato di anni scolastici andati persi. E pensare che non avevamo neanche il tablet per la didattica a distanza.
Durante il giorno quei corridoi sotterranei fra una casa e l’altra ospitavano i nostri giochi. Ne ricordo uno in particolare, realizzato con un vecchio portafoglio fuori uso e gonfiato di ritagli di carta di giornale tagliati delle dimensioni delle banconote. L’esca raggiungeva la perfezione quando uno di noi riusciva a guadagnarsi la complicità di un adulto dal quale farsi prestare una banconota vera da far sbucare fuori per mezzo centimetro. A un certo punto del corridoio un vano del soffitto ospitava il coperchio in ghisa traforata di un tombino. Lì sopra era posato il portafoglio vincolato da uno spago che terminava nelle mani di uno di noi. A questo punto non restava che attendere, ma non passava molto tempo prima che un adulto, il più delle volte una donna, adocchiasse il tesoro e, dopo essersi guardata intorno, si chinasse fulminea per afferrarlo. Sennonché un attimo prima l’oggetto del desiderio spariva tirato via da uno strappo del cordino, con un coro di risate.
Questo nella bella stagione; d’inverno una secchiata d’acqua gettata la sera stendeva un sottile velo di ghiaccio sulla strada in discesa. La mattina dopo lo spettacolo era offerto gratis dalle signore che erano costrette a usare il sedere come slitta. E ora ditemi: adesso dovrei invidiare i nostri ragazzi perché hanno i videogiochi?