Quattro giorni di negoziati, tre bozze (e chissà quante non sono diventate pubbliche), molte foto, molte occhiaie, molte prenotazioni d’albergo all’ultimo minuto (e chissà quante telefonate a casa: no, non torno nemmeno stasera): il vertice europeo di mezza estate ci ha infine regalato una piccola rivoluzione filosofica dell’Unione europea. Pareva impossibile, voltandosi indietro, che la pandemia avrebbe generato tale e tanto impegno: all’inizio eravamo tutti ripiegati sui nostri lockdown e i nostri picchi di contagi, erano saltati i pilastri europei in un attimo, le frontiere, le regole finanziarie. Pareva semmai possibilissimo che la pandemia avrebbe spezzato l’Europa come si augurano i catastrofisti e i nazionalisti: la vittoria dell’egoismo. Ma spesso gli apocalittici dimenticano che le pressioni che ci sono sull’Unione europea – tante, moltiplicate per 27 – finiscono per trasformarla, addirittura migliorarla.
È in corso una mutazione genetica del progetto europeo. È stato introdotto il debito comune, per la prima volta, e saranno introdotte anche tasse europee per ripagare questo debito – ci chiederemo, tra poco, se le tasse che non sono mai belle possono esserlo se sono di tutti e non solo di una nazione, se servono anche per evitare abusi concorrenziali dalle altre potenze. Il motore franco-tedesco, cementato dalla svolta tedesca (Angela Merkel ha detto di sì agli eurobond) e dall’allineamento francese, ha dovuto negoziare e molto per far valere la sua posizione. L’Olanda, che in paesi come l’Italia è stata rappresentata come l’avara e la taccagna dell’Ue, ha fatto valere una sua visione dell’Europa che finora era rimasta offuscata: l’Europa liberale, che si concentra su alcuni dossier e li fa funzionare.
Si è parlato molto del fatto che il premier olandese, Mark Rutte, abbia fatto l’inglese, come si dice, cioè si sia caricato sulle spalle il ruolo di guastafeste che in tutti i negoziati che avevano a che fare con i soldi era sempre stato interpretato dal Regno Unito. Una parziale sostituzione evidentemente c’è, ha a che fare con una visione liberale dell’Ue e con il rigore nordico (molto propenso ad accettare i rebate, gli sconti resi celebri da Margaret Thatcher e dalle sue borsettate), ma c’è anche un grande spartiacque tra Rutte e gli inglesi: il primo è europeista, i secondi no. Fa una bella differenza. Sono successe anche altre cose inaudite al vertice europeo di mezz’estate: l’Austria contro la Germania, per esempio, con il premier-ragazzo di Vienna, Sebastian Kurz, che dava lezioni di frugalità alla Merkel. E governi socialdemocratici (del nord) contrari agli aiuti e al sostegno di altri governi socialdemocratici (del sud): la prossima riunione delle famiglie europee potrebbe non essere molto tranquilla.
C’è poi stato anche un passo indietro piuttosto rilevante sulla questione dello stato di diritto: il rispetto delle regole della democrazia avrebbe dovuto essere vincolante per ottenere fondi europei, invece non lo è. Così il premier ungherese Viktor Orban, la star dell’illiberalismo dentro l’Ue con il suo partito in attesa di giudizio per la sua permanenza nella famiglia dei conservatori, ha potuto festeggiare – e lo fa da sempre con quell’enorme contraddizione secondo cui il più brutale nel suo euroscetticismo è anche uno dei beneficiari della generosità finanziaria dell’Ue.
Gli equilibri stanno cambiando, molto. L’Ue ha superato un tabù enorme e ne dovrà superare altri: il debito comune porta necessariamente a una fiscalità comune, e questo da un lato esalta la solidarietà europea ritrovata, dall’altro riporta alla luce i problemi della integrazione stretta dell’Ue, quell’«even closer» che ha fatto scappare gli inglesi. Però la macchina della solidarietà ha mobilitato, in tutto, tra Recovery fund, Bei, Sure, Bce e Mes, 2’640 miliardi di euro destinati alla ripresa post pandemia. È questo il prezzo che l’Ue è disposta a pagare perché ci si riesca a salvare tutti insieme, come progetto e forse anche come potenza che si ritrova in mezzo a guerre più o meno fredde tra altre superpotenze (la Cina e l’America soprattutto, e dall’una o dall’altra parte l’Unione europea trova guai). In gioco c’è un rilancio economico necessario e molto difficile – le previsioni restano plumbee – ma anche un rinnovamento degli equilibri, delle aspettative, forse anche dei processi e delle metodologie. Per la prima volta da tanto tempo viene da dire: non è poi così un brutto momento per essere europei.