Nell’inverno del 1917, un camion militare scarica i prigionieri in quello stesso paese sperduto dell’Appennino in cui, novant’anni dopo, dalla corriera scenderà il pakistano. L’Italia è in guerra da tre anni. Nella valle circolano solo donne, bambini, vecchi e inabili. Figli, fratelli e padri combattono nelle trincee del Nord: parecchi sono già caduti – diventeranno nomi sui monumenti delle piazze. Nessuno raccoglie l’orzo e le lenticchie, servono pastori per le pecore, bovari e mandriani. Servono cacciatori: i cinghiali si sono moltiplicati, devastando i campi e i noccioleti, e lupi famelici si spingono fino ai casolari più isolati. I residenti potevano chiedere l’assegnazione come forza lavoro dei prigionieri di guerra detenuti nel campo del capoluogo, ma hanno prevalso la diffidenza e la paura.
Solo tre famiglie si sono candidate. I nemici si rivelano una delusione. Non sono austriaci. Sindaco, dottore, maestro, prete e agrimensore spiegano che vengono dalla Galizia, la più remota regione dell’Impero Austro-ungarico, al confine con la Russia. La loro armata si è dissolta. Hanno cognomi e nomi difficili da capire e pure da trascrivere. Li chiameranno Basilio, Lucio e Giovanni. Pallidi e patiti, nemmeno sembrano soldati. Basilio ha quarantasei anni, Lucio quaranta. Solo Giovanni, di venticinque, ha un’età adatta alla guerra (ma la guerra non è adatta a lui: è un disertore). Il potente esercito che ci ha inflitto l’umiliazione di Caporetto e ha invaso il sacro suolo d’Italia era formato da questi fantasmi macilenti. Lucio si sistema nella frazione a mezzogiorno, come assistente del sellaio. Basilio va a stare da un pastore, nella frazione a settentrione, a mille metri di altitudine. Il vecchio che lo ha richiesto ha due figli in guerra, dispersi. I vicini l’hanno rimproverato di non avere amor di patria: mettersi in casa uno che potrebbe avergli ammazzato i figli… Il vecchio ha risposto che se i figli suoi fossero prigionieri, vorrebbe che una famiglia galiziana li trattasse come esseri umani.
Basilio impara a occuparsi delle pecore e a fare il formaggio: era contadino. Giovanni alloggia nella frazione orientale, lungo il torrente, col mulino e la segheria. A differenza degli altri non sa fare niente con le mani. Giovanni, in realtà Ivan, non è austriaco, non è ebreo, non è nemmeno russo, anche se il suo nome all’agrimensore ricorda gli eroi dei romanzi di Dostoevskij. Lui sostiene di essere ucraino. Cosacco è il compromesso su cui si accordano. Diventano presto presenze familiari. Lucio e Basilio frequentano l’osteria e la chiesa; Ivan invece, dopo aver scaricato la farina e il legname, staziona davanti alla scuola e conversa coi notabili. Il profumo delle foglie bagnate, del muschio e della resina dei larici lo commuove. I tre prigionieri festeggiano con noi sul sagrato l’armistizio e la fine della guerra. Piangono di gioia, perché sono sopravvissuti. Ma anche di nostalgia. La vittoria degli italiani significa che l’Impero non esiste più. Che non sanno quando potranno tornare a casa. Non ci torneranno, infatti. Non lo sapevano, ma la valle era la mèta, e la patria a loro destinata.
Da mesi una violenta influenza stermina la popolazione d’Europa. Uccide soprattutto i giovani. Ma la notizia è censurata. Alla festa non vengono prese precauzioni, e solo il dottore e il maestro, informati del rischio del contagio, si tengono in disparte. Si ammalano tutti – indigeni e stranieri. Quando Basilio si aggrava, la moglie del pastore gli promette che scriverà ai suoi figli. A dicembre muore Lucio. L’ultima cosa che ha detto al sellaio è di essere cèco e più della morte gli dispiace che il suo paese finalmente esiste, ed è libero e indipendente, ma lui non potrà viverci. Si ammala anche l’agrimensore, e contagia Ivan. D’estate, hanno corteggiato la stessa ragazza, la figlia di un emigrato che si è arricchito facendo il gelataio a Napoli e al paese natio porta la famiglia in villeggiatura. L’agrimensore muore, col rimpianto che la ragazza era stata fidanzata a lui, anche se preferiva l’altro. Ivan invece risana.
La guerra è finita, e lui non ha un posto cui tornare. Resterebbe, forse. Non gli viene concesso. Un colpo di fucile. Parlano di un incidente di caccia. Li seppelliscono insieme, nel cimitero del villaggio, all’ombra di un salice. La sciagura della guerra invece di dividere aveva unito. Un polacco, un cèco, un ucraino: gente qualunque, proprio come noi. Ci pensa la pace a renderci stranieri gli uni agli altri.