Segnatevi questa data: 4 marzo 2018. Sarà una domenica di fuoco. L’Italia ha in agenda le elezioni politiche generali, a chiusura di una lunghissima e rovente campagna elettorale. Anche noi, come abitanti di un cantone-prua che s’incastona in Lombardia, assisteremo allo tsunami televisivo che sta montando negli studi di Rai e Mediaset.
Già, la televisione. Medium che sarà pure al centro di una delle più rilevanti votazioni degli ultimi anni nella Confederazione: l’iniziativa denominata «Sì all’abolizione del canone radiotelevisivo», detta anche «No Billag». Tre i capoversi salienti dell’articolo: «La Confederazione mette periodicamente all’asta concessioni per la radio e la televisione»; «La Confederazione non sovvenziona alcuna emittente radiofonica o televisiva»; «La Confederazione o terzi da essa incaricati non possono riscuotere canoni». In parole povere, l’iniziativa chiude l’era del servizio pubblico nel nostro paese, affidando i destini dei media all’asta, ovvero all’offerta delle imprese private. Saranno loro a disputarsi le concessioni. La Confederazione si disimpegna.
«No Billag» è stata lanciata da cerchie vicine alla destra nazionale. Tuttavia la stessa Udc è divisa, come pure la sua alleata Lega dei ticinesi. Ciò nonostante i promotori possono contare su un ampio e frastagliato schieramento di nemici del canone, capace di incamerare un buon numero di voti. Voti di varia provenienza e colore che però, alla fine, potrebbero sommarsi. Alcuni avversari sono noti, altri meno. Vediamone alcuni: 1) i neoliberisti, antistatalisti, antimonopolisti; 2) gli insoddisfatti (per vari motivi, ma soprattutto per l’ammontare del canone); 3) i discriminati (perché non adeguatamente rappresentati); 4) i risentiti (radiotivù come nido di privilegiati nelle mani della sinistra); 5) i fautori dei nuovi media che ritengono la tecnologia televisiva un relitto del passato; 6) i fruitori delle fonti gratuite in rete, considerate sufficienti.
L’appoggio al servizio pubblico è stato corale fino all’inizio degli anni Settanta. La creazione di una stazione radiofonica (anni Trenta) e di un’antenna televisiva (anni Cinquanta-Sessanta) rispondeva ad un’esigenza largamente diffusa nella popolazione: la tutela delle minoranze linguistiche, che doveva estendersi anche all’etere. La radio, in particolare, poteva vantare un altro merito storico: la difesa dei princìpi democratici e della libertà in un’epoca – il periodo interbellico – dominata dal fascismo e dal nazismo.
Questa eredità ha iniziato a smagliarsi negli anni Settanta, come riflesso di una ripresa dello scontro politico-ideologico. In Ticino, per contrastare la presenza ritenuta eccessiva della sinistra nella sfera culturale, nacque «Liberi e Svizzeri», associazione che aveva nel mirino due bersagli: la radiotelevisione e la scuola. Poi dai mari del nord è sopraggiunta l’ondata neoliberista, con un programma tutto incentrato sul graduale ridimensionamento delle aziende statali e para-statali. La strategia adottata per raggiungere l’obiettivo consisteva nel sottrarre risorse all’amministrazione e alle istituzioni pubbliche; si trattava, insomma, per dirla in gergo, di «affamare la bestia», ovvero di costringerla a dimagrire negandole le calorie necessarie.
Queste politiche proseguono tuttora, nelle poste, nelle ferrovie, nell’esercito (un tempo uno dei principali datori di lavoro nelle regioni di montagna). Ora tocca alla radiotelevisione, in un contesto peraltro sottoposto a fortissime scosse e sollecitazioni, sia aziendali (colossi privati esteri), sia tecnologiche (Internet).
Da tempo la SSR-SRG non è più padrona assoluta del settore; negli ultimi decenni molte piccole antenne radiotelevisive sono spuntate ai piedi del suo tronco, usufruendo di una frazione del canone. Non è però pensabile che quest’ultime possano garantire il pluralismo, condizionate come sono dai capitali privati e dalla pubblicità. In un paese frammentato come la Confederazione (per lingue, confessioni, tradizioni storiche, culturali e religiose), rinunciare ad un forte centro ordinatore vorrebbe dire consegnare il paese ai canali delle nazioni che ci circondano. Ovvero, accettare un colonialismo informativo di matrice tedesca, francese e italiana (mentre all’interno proliferano le iniziative anti-europee per «salvare la patria»: un bel paradosso).
C’è stata una fase, nell’Ottocento, in cui nell’esecutivo federale sedevano, su sette membri, un solo romando e nessuno svizzero-italiano (6:1). La crassa sproporzione, frutto del sistema di voto maggioritario, fu motivo d’indignazione e di accese rivendicazioni, sia in Romandia che in Ticino. Ecco: sopprimere il servizio pubblico significherebbe imboccare questa strada, ossia ritornare allo stato di minoranza priva di rappresentanza. Dunque orfana e afona.