Appartiene ormai al repertorio di detti celebri e multiuso, il titolo del bellissimo film diretto nel 2007 dai fratelli Ethan e Joel Coen: Non è un paese per vecchi, ricavato dall’omonimo romanzo di Cormac McCarty. Raccontava una vicenda tipicamente americana, ambientata nel Texas degli anni 30, dove il conflitto generazionale si manifestava in forme violente. Di cui i vecchi, cioè i deboli, erano le vittime predestinate. O lo sono ancora? In altre parole, quella sorta di «apartheid» che spettava agli anziani, persiste? Di certo, non alle nostre latitudini, in particolare in Svizzera, e soprattutto in Ticino, si deve parlare di paese non solo di vecchi ma per vecchi. Una situazione, diciamo pure un privilegio, che contraddistingue la maggior parte delle democrazie occidentali europee, poi il Giappone, in minor misura gli USA. Tanto da alimentare, in forme competitive, un orgoglio nazionale associato, appunto, alla longevità, fenomeno tutt’altro che naturale. È frutto, invece, di interventi umani, efficienti, sempre in fieri nell’ambito sanitario e sociale. Ciò che spiega come gli anziani nei paesi evoluti, dove sono già molti, lo saranno ancora di più. Secondo le previsioni anagrafiche, continuano a spostarsi verso l’alto i limiti di età che, un tempo, si chiamavano venerande. Adesso sono semplicemente una prospettiva raggiungibile, addirittura un effetto collaterale del sistema democratico, come osano sostenere alcuni politici per attribuirsene il merito.
Certo è che la figura del centenario non rappresenta un’eccezione. Con evidenti conseguenze, anche d’ordine pratico. A Lugano, il municipio ha deciso di rinunciare al dono della poltrona: costoso e in pari tempo simbolico, in senso negativo: sottintende un sedentario forzato. Ironie a parte, accumulare dieci decenni d’esistenza appartiene a una nuova normalità, un traguardo che non fa quasi notizia, se concerne il comune cittadino. Ma anche un personaggio in vista, come fu Guido Locarnini, lo festeggiò con un certo distacco.
Ci è voluto il primato dei 122 (o 124) anni, compiuti da Jeanne Calment, cittadina di Arles, a mobilitare i media mondiali, sollecitati anche dal sospetto di frode: Madame Calment avrebbe corretto la data di nascita, anticipandola due anni. Un gesto di segno opposto per una donna che, tradizionalmente, gli anni preferisce toglierseli.
Al di là di questa strana manipolazione, anche i casi di ultracentenari, a quanto pare in buona forma, si moltiplicano. Si deve parlare di una tendenza che si manifesta, qua e là, magari in zone di clima mite: ne è un esempio la Sardegna che, giustamente, sfrutta i suoi centenari a scopo turistico. Quali ne siano, esattamente, i fattori diretti non è ancora dimostrato. Tanto più che, per un confronto di dimensioni mondiali, mancano i dati statistici relativi al Terzo Mondo.
Intanto, alle nostre latitudini, la longevità, dato di fatto, è diventata materia di analisi e riflessioni ad ampio raggio. Se ne ricavano conclusioni che vanno oltre i risaputi effetti finanziari, assicurativi, medici provocati dai cittadini della terza e quarta età. I vecchi come peso, insomma. Mentre la longevità deve indurre a un ripensamento in profondità, come sta avvenendo. Si tratta di adeguare le norme che regolano il nostro modus vivendi delimitando periodi precisi sin qui intoccabili: lo studio, l’attività professionale, il pensionamento.
Secondo James Vaupel, ricercatore uscito da Harvard e dalla Kennedy School of Government, interpellato dalla NZZ, questo schema rigido non tiene conto di quel supplemento di vita che ci spetta. E che si rischia di sprecare. «C’è da rabbrividire, dichiara, pensando che un terzo dei nostri giorni vengono affidati alle illusioni del tempo libero!».
Ora se Vaupel denuncia un guaio reale, «un sistema che butta un 55.enne fra i vecchi», d’altro canto non propone un’alternativa concreta e ragionevole. Continuare a lavorare sfidando l’età e i pregiudizi? Io ci sto provando: non è uno scherzo.