È passato quasi un anno da quando il premier etiope, Abiy Ahmed, ha lanciato una campagna militare contro la regione «ribelle» del nord dell’Etiopia, il Tigray. Da quando è iniziato il confitto i sei milioni di abitanti del Tigray hanno ricevuto soltanto una parte del cibo necessario alla sopravvivenza, pochissimo carburante e nessun sostegno sanitario. Quattrocentomila di loro sono, secondo la definizione delle Nazioni unite, in carestia «catastrofica» che è il passo che precede la morte per fame di massa. Il Governo di Abiy dice che non si tratta di una catastrofe indotta e che lascia passare il cibo necessario, ma i dati raccolti dalle Ong e dall’Onu raccontano una storia molto diversa. È un assedio volto a sfinire il Tigray, significasse anche far morire tutti di fame. Soltanto un decimo dei cento camion carichi di generi alimentari e di medicine che dovrebbero entrare nella regione ogni giorno riesce ad arrivare a destinazione. Medici senza frontiere e il Norwegian refugee council, due delle agenzie internazionali impegnate per sostenere la popolazione del Tigray, non possono più operare per volere del governo di Abiy, e alcuni funzionari dell’Onu sono stati cacciati dal Paese con l’accusa di interferenze nella «politica domestica» dell’Etiopia.
Poi ci sono le accuse di crimini di guerra. Alla fine dell’anno scorso, ad Axum, i soldati eritrei che combattono assieme alle forze etiopi hanno ucciso centinaia di persone, soprattutto uomini e ragazzi. Molti sono stati messi in fila e ammazzati con un colpo alla schiena; altri sono stati ammazzati mentre uscivano di casa, dalla chiesa, alcuni persino nei letti d’ospedale. Le forze militari del Tigray sono invece state accusate di aver stuprato e ucciso rifugiati eritrei nei campi gestiti dalle Nazioni unite. Il 4 ottobre c’è stata una grande parata ad Addis Abeba, la capitale, con balli e spettacoli per celebrare il premier Abiy, che è al potere dal 2018, quando il suo predecessore si dimise per le proteste, e che nel 2019 ha vinto il Nobel per la pace per aver siglato un accordo con l’Eritrea che metteva fine a decenni di guerra. Abiy ha vinto le elezioni a luglio e la festa celebrava l’inizio del suo mandato completo che dovrebbe durare cinque anni: pareva un re. «Abbiamo raggiunto una nuova epoca», ha detto il premier, ma non parlava soltanto agli etiopi, parlava soprattutto alla comunità internazionale. Abiy cerca una legittimazione che la guerra contro il Fronte di liberazione popolare del Tigray ha molto ridimensionato.
Gli Stati uniti hanno minacciato sanzioni contro il Governo se non lascerà passare cibo e medicinali nel Tigray, mentre alcuni Paesi europei, soprattutto la Francia e la Germania, hanno sospeso il rifornimento di armi e di aiuti bilaterali. Ma come spesso accade anche altrove, il Governo etiope si è rivolto ad altri, in particolare a Turchia e Iran, che solerti hanno risposto, e ha chiesto al Fondo monetario internazionale un prestito e il condono del proprio debito per un valore pari a 30 miliardi di dollari. Potrebbe essere utile, sul fronte della deterrenza, votare all’Onu un embargo delle armi ad Addis Abeba, ma Cina e Russia hanno finora impedito al Consiglio di sicurezza, dove la crisi etiope è stata discussa già dieci volte, di imporre qualsivoglia misura sanzionatoria (non ci si è accordati nemmeno su una condanna verbale dell’espulsione dei funzionari dell’Onu). Dopo aver per anni tessuto legami con l’America, con l’Europa e con la Cina oltre che con i Paesi della regione, Abiy ha iniziato a denunciare nei suoi comizi «i nemici stranieri» e a lasciare prosperare ogni genere di teoria del complotto, dall’America che sostiene le forze del Tigray fornendo loro dei biscotti «drogati», ai funzionari dell’Onu che sono dei trafficanti d’armi. Intanto ha chiuso ambasciate, ha sfiduciato i suoi diplomatici e ha fatto arrabbiare i suoi ex alleati comprando droni dall’Iran, non ricevendo inviati americani e non mantenendo le promesse sul sostentamento del Tigray.
«Metti fine alla guerra e le nostre relazioni miglioreranno», ha detto un ambasciatore europeo, ma secondo un’analisi dell’«Economist» Abiy è diventato «paranoico e fuori controllo». La razionalità e la volontà di compromesso che hanno caratterizzato la sua ascesa non ci sono più. Alla comunità internazionale restano ancora degli strumenti per provare a contenere la catastrofe: il prestito che Abiy chiede al Fondo monetario dipende dalla volontà di America ed Europa che possono condizionarlo alla fine dell’assedio nel Tigray. L’Etiopia poi esporta ogni anno beni per il valore di 250 milioni di dollari in America attraverso un accordo di scambio bilaterale. Washington potrebbe togliere l’Etiopia dalla lista dei Paesi africani che hanno accesso a questo programma fino a che non arriva il cibo in Tigray. Potrebbe non essere sufficiente, ma è l’unico modo per evitare che un premio Nobel per la pace faccia morire di fame il suo popolo.
Un Nobel per la pace che affama il suo popolo
/ 18.10.2021
di Paola Peduzzi
di Paola Peduzzi