Da secoli i musei ci raccontano delle storie attraverso gli oggetti, i manufatti, le opere d’arte che espongono. Da dove vengono, a chi appartenevano, chi sono quelle persone ritratte nel quadro, di quale materiale è fatta quella scultura, sono solo alcune delle domande che ci poniamo camminando tra i corridoi e le sale dei musei. Ognuno ha qualcosa di speciale da raccontare, ogni museo promette di farti vivere delle esperienze magiche, profonde, importanti, una volta varcata la soglia. E cosa c’è, in effetti, di più bello, in un tiepido giorno d’autunno, del sentirsi avvolto dalle mura esperienziali di un museo e dalle sue storie mentre fuori piove e tutto scorre. È un po’ come cercare rifugio, pace, creare una sorta di interruzione da quel flusso frenetico della nostra vita quotidiana, come entrare in una casa per la prima volta e lasciarsi sorprendere dal suo arredamento, dai suoi profumi, dalle storie, appunto, che ogni piccolo angolo è in grado di raccontarci.
Le storie costruiscono ponti tra le persone, tra le epoche e i luoghi, uniscono ed emozionano. E la loro magia, il loro effetto non dura solo la visita di un museo ma, grazie alle potenzialità delle nuove forme di racconto multimediali, perdura e va oltre. A me per la prima volta è capitato a Berlino. Sono stata investita da un treno in corsa a piena velocità per l’intensità, la forza e la dimensione tragica del racconto visitando il Museo Ebraico di Berlino e quello di Checkpoint Charlie, uno dei simboli finali della Guerra Fredda. Forse perché le storie che raccontano sono prima di tutto storie umane recenti, storie che in un certo qual modo ci riguardano e toccano tutti. Quale emozione, quale rabbia nel vedere le foto di chi ai tempi della DDR ha perso la vita tentando invano di attraversare il muro, quale vuoto nel mettere piede in quella stanza vuota e fredda del museo di Daniel Liebeskind con quelle migliaia di volti di ferro urlanti a terra. Si chiama architettura emozionale e qui risiede la chiave del museo contemporaneo, nel saper suscitare emozioni in chi lo visita.
Prova ad emozionarci immergendoci nel destino altrui una mostra dell’Empathy Museum dal titolo A mile in my shoes, una realtà itinerante a livello internazionale. «Un miglio nelle mie scarpe», riprende il proverbio dei nativi d’America: «Non giudicare mai un uomo se prima non hai camminato per un miglio nei suoi mocassini». In pratica i visitatori sono invitati ad entrare in una gigantesca scatola e ad infilarsi ai piedi un paio di scarpe. Ci sono i sandali di Christine Brown, che in un file audio racconta la depressione della figlia Kathleen, gli stivali di gomma di Karen Lang che ha perso una figlia, le scarpe da tennis di un rifugiato siriano, quelle con il tacco di una prostituta, gli anfibi di un veterano di guerra... Si possono indossare tutte, camminarci mentre si ascolta la voce e la storia di chi le ha indossate. Ogni storia copre un diverso aspetto della vita umana esplorando emozioni e stati d’animo causati dall’esperienza della perdita, del dolore, della speranza e dell’amore conducendo il visitatore attraverso un viaggio empatico e fisico. Cosa si prova ad essere stato in prigione, ad essere un bambino cresciuto a Teheran? Il museo dell’empatia ci aiuta a scoprirlo attraverso una serie di progetti che si concentrano sulla partecipazione, lo storytelling e il dialogo, aiutandoci a vedere il mondo attraverso gli occhi degli altri, ad esplorare come l’empatia sia in grado, non solo di trasformare le nostre relazioni personali, ma anche di cambiare il nostro atteggiamento di fronte alle questioni globali come la migrazione, il pregiudizio, il conflitto e l’ineguaglianza. Il progetto, partito nel 2015, conta oltre 150 storie e altrettante paia di scarpe. Per saperne di più, ascoltare alcune storie o partecipare proponendo la vostra, andate qui: www.empathymuseum.com.