Cara Silvia,
ho sempre letto con piacere la sua rubrica e ora, in un momento importante della mia vita, comunico la mia decisione innanzitutto a lei, alla «Stanza del dialogo»: sto per lasciare mio marito. Non creda sia una scelta facile e improvvisata, una reazione di rabbia, la ripicca a un tradimento. No, no: mio marito è sicuramente fedele e anch’io, almeno per il momento, non ho alternative. Il fatto è che non ne posso più. Siamo sposati da undici anni e abbiamo una bambina di nove.
L’esasperazione è il risultato di un’infinità di piccole seccature. Studioso di matematica, vive nella sfera dei numeri: la realtà non lo interessa, la pratica non lo riguarda. Non ha mai preso la patente, gira soltanto in bicicletta, veste come capita, non porta l’orologio, dimentica l’ombrello. Un tempo mi affascinava la sua genialità, il fatto che fosse diverso dagli altri, disinteressato, libero e puro come un bambino.
Ma dopo che ho dovuto occuparmi ogni giorno di lui e rimediare alle sue «malefatte»: la bambina dimenticata a scuola, le bollette scadute, gli appuntamenti scordati, i portafogli smarriti, mi sento logorata. È vero che ad ogni compleanno giunge con un bel mazzo di fiori, peccato che spesso sbagli la data. Adesso BASTA, non ne posso più. So che lei cercherà di dissuadermi ma non so se riuscirà a convincermi. / Emy
Non ci tento neppure. Può darsi che, lasciato a se stesso, questo Cherubino scenda in terra e impari a cavarsela da solo. È quello che accade agli adolescenti: pigri e inetti finché rimangono in famiglia, capaci di organizzarsi quando vanno a vivere da soli.
È lei piuttosto che mi preoccupa. Sento d’intuito che ama ancora suo marito e prevedo che, dopo averlo cacciato di casa, ben presto ne sentirà la mancanza. Crediamo di amare i partner per i loro pregi mentre sono soprattutto i difetti che ci attraggono e avvincono. Intorno a un marito così dipendente lei ha organizzato la sua vita e strutturato delle abitudini che non sarà facile scardinare. A lungo andare le abitudini diventano un habitus, modellano il carattere, strutturano la personalità, organizzano l’esistenza.
Per dieci anni una parte del suo cervello è rimasta a disposizione delle richieste di aiuto di una persona sana, giovane, intelligente e al tempo stesso incapace di badare a se stessa. Un’inesausta attività di pronto soccorso deve aver perfezionato in lei straordinarie capacità di problem solving, fatte di rapida comprensione della questione e di pratica, efficace risoluzione delle conseguenze. Sono abilità che impegnano ma che in fondo danno soddisfazione perché ci fanno sentire utili, talora indispensabili.
Credo che il suo geniale matematico, sentendosi protetto e sostenuto, non si sia mai impegnato a superare disattenzione e pigrizia: tanto c’è chi vede e provvede. D’altra parte la storia è piena di aneddoti, veri o fantasiosi che siano, di scienziati «imbranati» sino al parossismo. Il povero Einstein ne è la vittima più illustre. Ha mai sentito la storiella che per cuocere un uovo sodo immergeva nell’acqua bollente l’orologio cercando di contare i minuti sul guscio dell’uovo?
Chi si è preso cura dei grandi studiosi, scienziati, letterati o artisti che siano, in genere le mogli, ha contribuito in modo indiretto allo sviluppo delle conoscenze, ma chi sarà mai disposto a riconoscere un sostegno così discreto? Se questo compito l’ha esaurita senza rimedio, lasci pure il suo amabile vampiro. I tempi sono cambiati e il femminismo ci ha convinte che tra le persone da accudire ci siamo anche noi. È passato il tempo delle crocerossine affettive ed esaurito l’imperativo «io ti salverò!», che ha assorbito le risorse di tante donne.
Rifletta un momento e cerchi di capire quali sono i suoi desideri, interessi e passioni e poi cerchi di realizzarli. Se dedicherà un po’ di tempo a se stessa sarà meno disponibile a porre rimedio alle lacune altrui. La prossima volta che suo marito la chiama perché ha dimenticato l’ombrello, invece di correre a portarglielo, gli risponda: «aspetta che spiova» e torni, senza sentirsi in colpa, alle sue occupazioni.