Un fascismo da avanspettacolo

/ 05.07.2021
di Orazio Martinetti

Nelle manifestazioni che si sono tenute negli ultimi mesi a Lugano, Locarno e Bellinzona, in relazione al destino dei centri autogestiti, è riapparso l’epiteto «fascista», appioppato alle autorità municipali e alla polizia. Fascista è termine (in questo caso, insulto) pesante, che ridesta i peggiori fantasmi del Novecento: la violenza sistematica, l’annientamento dell’avversario politico (considerato nemico), le persecuzioni, le deportazioni, i campi di concentramento e di sterminio. È quindi una parola che più di altre trafigge l’anima del destinatario, rinserrandolo nelle categorie dell’abominio. Bisognerebbe invece distinguere, precisare i concetti, affinare il linguaggio, e soprattutto contestualizzare. Impresa ardua in una cornice che ormai vive quasi esclusivamente nel presente e sull’onda di una comunicazione ad alta intensità emotiva. «Fascista» non dice nulla sulle forme e le modalità di controllo che la società tecnologica ha sviluppato dopo la guerra fredda; è muta sugli algoritmi che ha saputo perfezionare per meglio organizzare sia il mondo del lavoro, sia la gestione del tempo libero attraverso la raccolta dei dati personali. La «società della sorveglianza» è già operativa e sempre più capillare e multiforme.

Ma torniamo al fascismo storico. Fenomeno la cui matrice fu essenzialmente italiana, nato all’indomani della Grande Guerra, a Milano, con la fondazione dei Fasci di combattimento (1919). La bibliografia sull’argomento è vastissima e a questa rimandiamo (segnaliamo, tra le ultime pubblicazioni, i saggi di Emilio Gentile e di Mimmo Franzinelli). Meno noto è invece il capitolo elvetico di questa vicenda, che ebbe nel cosiddetto «frontismo» la sua punta di lancia a cavallo degli anni Trenta. Trainato dai successi del fascismo prima e del nazismo poi, il frontismo credette di poter trapiantare anche sul suolo elvetico l’idea dello Stato autoritario e dell’organizzazione corporativa, escludendo dall’arena politica sia i partiti che il parlamento. Un esempio tra i tanti possibili: «Elezione: corruzione. È la ferrea legge della democrazia dei partiti e del suffragio universale. La quale è pel Ticino una peste che ne svelle le virtù, ne perpetua i mali, ne sugge le facoltà cerebrali e volitive». Gli echi dei regimi totalitari giunsero anche in Ticino, seminando zizzania all’interno degli schieramenti centristi presidiati dai liberali e dai cattolici conservatori. I radicali antifascisti condussero la loro battaglia dalle colonne del giornale «Avanguardia», mentre i conservatori dovettero assistere alla disgregazione della «Guardia Luigi Rossi». Fu questo circolo giovanile a fornire i quadri dirigenti dei nuovi movimenti di estrema destra sorti nel 1933, l’anno di ascesa di Hitler al potere in Germania. Nel giro di pochi mesi videro la luce la Lega Nazionale, capeggiata da Alfonso Riva, e la Federazione fascista ticinese, diretta prima dall’ingegner Nino Rezzonico, il «duce di Porza», e poi dall’avvocato Alberto Rossi. Dalla stampa d’oltre confine, le testate d’area – «L’Idea Nazionale» e il «Fascista svizzero» – ripresero gli stilemi, la retorica truce, l’argomentazione minacciosa, la titolazione cubitale in uso nella pubblicistica nazifascista.

Le due formazioni rimasero comunque ai margini e scomparvero presto dalla scena politica del cantone. La spallata di cui gli squadristi ticinesi vollero rendersi protagonisti nel gennaio del 1934 al termine di una chiassosa «marcia su Bellinzona» si spense in un’ignobile gazzarra sotto le finestre del Palazzo delle Orsoline. Una sconfitta bruciante che finì per avvelenare anche i rapporti tra i «comandanti» del movimento. Rossi, irritato per il comportamento del duce di Porza (che si era ritirato a Milano), scagliò contro il rivale un sarcastico libello, Rivoluzione nel Ticino!, al quale Rezzonico rispose a tono con Battaglie, volumetto in cui rivendicava i suoi meriti. Alla fine la contesa si risolse in rissa tra i due, come puntualmente riferì il «Corriere del Ticino» nell’edizione del 1. dicembre del 1936: «Una violenta baruffa è avvenuta ieri sera in Piazza Indipendenza, di fronte alla Tipografia “Tessin Touriste” verso le ore 19. Il signor Nino Rezzonico, di Porza, che era stato attaccato in un opuscolo fatto stampare dall’avv. Alberto Rossi, affibbiava a quest’ultimo alcuni colpi di staffile. La reazione dell’avv. Rossi ha dato in seguito origine a nutrito scambio di colpi fino a quando alcuni presenti riuscirono a separare i contendenti». Finiva così, ingloriosamente, con una scazzottata tra camerati, il fascismo ticinese. Che però sopravvisse in alcune cerchie influenti della politica e del giornalismo, in forme diverse, spesso larvate, sedotte dal piglio autoritario e liberticida dei regimi dittatoriali e, nel contempo, atterrita dai successi dell’Unione Sovietica di Stalin.