La guerra in Ucraina, la pandemia, i mutamenti climatici non potevano mancare nell’agenda del Forum economico di Davos, con in sottofondo il conflitto fra Stati Uniti e Cina, primo sasso nelle scarpe dell’economia globale (con la guerra tariffale iniziata da Trump). Accanto agli accenti politici posti dai vari governanti mondiali, sono stati in particolare i panel di discussione a offrire uno sguardo approfondito sulla «Grande confusione» che investe il mondo. E che presenta, come ritengono alcuni economisti, le condizioni per una perfetta tempesta economica, con la concomitanza di una pandemia (in particolare con i continui lockdown in Cina), una guerra d’aggressione, i mutamenti climatici. Una questione di fondo, a Davos, è quindi stata: la globalizzazione dell’economia si sta inceppando?
La maggiore ipoteca è di natura geopolitica. E si chiama guerra. Quella in Ucraina ha un impatto mondiale, per l’impennata dei prezzi dell’energia, per la sicurezza alimentare di molte popolazioni, private del grano dell’Ucraina, solo per nominare due aspetti. Ma quella che si delinea fra Stati Uniti e Cina avrebbe conseguenze ancora maggiori, vista l’interdipendenza fra le economie delle due superpotenze. Nel governo americano più voci hanno espresso l’obiettivo di indebolire la Russia di Putin – per potersi poi concentrare sul contenimento della Cina. Le rinnovate dichiarazioni del presidente Biden sulla volontà di difendere Taiwan, di cui Lucio Caracciolo scrive a pagina 25, intendono avere uno scopo deterrente, ma non sappiamo se a Pechino non vengano piuttosto interpretate come aggressive, acuendo il conflitto fra i due paesi. In gioco non c’è solo il destino di Taiwan, ma anche dell’area indo-pacifica, quindi il controllo dei commerci marittimi, senza contare l’importanza strategica rappresentata dalla rete di cavi sottomarini per il traffico di dati.
Eppure, chi è coinvolto nella grande macchina della globalizzazione vede altri aspetti, dati spesso in ombra, che parlano un’altra lingua. Certo, come ha affermato Loic Tassel, presidente di Procter&Gamble Europa, la globalizzazione si sta spostando («is shifting»): uno dei princìpi che ne sta alla base è l’affidabilità delle catene di fornitura, che con i lockdown in Cina è venuta a mancare, per cui si sta assistendo ad una loro regionalizzazione (in futuro Procter&Gamble conta di produrre in Europa il 90% di quanto consumeranno i suoi cittadini). La globalizzazione dunque sta mutando forma, in alcuni settori recede, in altri avanza, ma nel complesso resta in crescita, trainata dallo sviluppo della tecnologia (che rende tutto più globale) e da una demografia in crescita nei paesi emergenti. Come affermato dalla direttrice dell’International Trade Centre Pamela Coke-Hamilton, la narrativa è che la globalizzazione sta recedendo, ma i dati indicano che nel 2021 l’economia digitale è esplosa, trainata dalla pandemia, e la produzione di merci resta in crescita. Le ha fatto eco l’amministratore delegato della Borsa di Hong Kong Nicolas Aguzin: anche l’anno scorso le transazioni finanziarie sono cresciute in modo importante. Considerato poi che il 40% della popolazione non ha accesso a internet (di cui l’80% in Africa), esiste un potenziale enorme di sviluppo. Fondamentale, secondo i panelisti, è che possa avvenire quel transfer tecnologico verso i paesi emergenti che permetta loro di creare proprie, più regionali e più eque catene di produzione, e innovazioni che rendano possibile la transizione verso un’economia verde (che secondo Pamela Coke-Hamilton a causa della guerra in Ucraina sta avendo un’accelerazione). Per poterlo fare vanno però mobilitate enormi risorse finanziarie.
Per quanto riguarda Stati Uniti e Europa, regionalizzare le catene di produzione significherebbe invece riportare «a casa» molti posti di lavoro, ma al prezzo di prodotti più cari.