Lo confermano visibilmente le nostre cronache: un secolo di vita è un traguardo ormai raggiungibile. Lo tocca, il prossimo 16 gennaio, Guido Locarnini, nel miglior modo: fedele al riserbo e al senso di misura che l’hanno contrassegnato nel ruolo di giornalista e direttore del «Corriere del Ticino». Raccontando la storia di questo quotidiano, nel volume che nel 1997 ne celebrava il centenario, Mario Agliati aveva definito Locarnini, appunto, «un riservato signore cinquantenne». Si era nel 1969, in un clima di sconvolgimenti ideologici indecifrabili, quando questo signore assunse la direzione del più importante giornale ticinese, considerato un baluardo di conservatorismo benpensante. Significava mettersi alla prova, con coraggio e accortezza. E, come prima cosa, farsi accettare, a Lugano, dov’era una sorta di estraneo. Girava la battuta: è nato a Bellinzona, si chiama Locarnini, e adesso fa il luganese. Per giunta, il suo predecessore, il simpaticissimo avvocato Giovanni Regazzoni, era stato un autentico campione della luganesità di vecchio stampo. Rivendicava, sia pure bonariamente, il privilegio di essere nato e cresciuto proprio a Molino Nuovo. Anticipando uno spirito di quartiere, poi sfruttato dalla Lega, nata lì, in via Monte Boglia.
Ben diversi, invece, i propositi e gli strumenti di Guido Locarnini. Aveva alle spalle una laurea in germanistica e un’esperienza professionale a Berna, a diretto contatto con gli ambienti politici e economici d’oltre Gottardo. E così puntò sulla carta giusta e aggiornata ai tempi. In altre parole, s’impegnò per aprire il «Corriere» alla dimensione nazionale e internazionale, sottraendolo al rischio di un campanilismo spesso associato al fanatismo rissoso. Che, infatti, erano stati la ragion d’essere tipica della stampa ticinese d’antan: con sei quotidiani, di cui tre organi di partito, diretti da politici, prestati al giornalismo, che si affrontavano in schermaglie, tra il feroce e il pittoresco. Nei loro editoriali, facevano rivivere, con l’arma dell’insulto, un clima da duello paesano, magari divertente, ma di certo non informativo né educativo.
Intanto, il Paese cambiava, e come. Locarnini aveva avvertito gli umori e i comportamenti di un pubblico, che chiedeva altro. E proprio negli anni 70/80, il «Corriere», il CdT nell’era delle sigle, aspirava a diventare la credibile espressione di una società in piena crescita, per lettori esigenti. Prende avvio, allora, una forma di comunicazione mirata, nei più svariati ambiti, affidati a specialisti di settore, che stavano sostituendo i giornalisti tuttologi delle precedenti generazioni. Con i vantaggi e i pericoli che incombono su una professione, dai connotati imprecisabili, che spesso produce ambizioni spropositate. Guido Locarnini ne rimase sempre al riparo. Nei suoi scritti e discorsi, ritornano parole come «lealtà, comprensione reciproca, senso della relatività di fronte a ogni causa». Come dire, nessuna sarà mai quella buona in assoluto. E quindi bisogna imparare a mediare, in vista di un accettabile compresso.
Questa la ricetta, o meglio lo stile, di un direttore come, forse, oggi non usa più. Sul piano personale, l’ho sempre chiamato «dottor Locarnini», negli anni in cui collaboravo assiduamente al «Corriere». Impensabile, nei suoi confronti, il tu, la pacca sulle spalle, il cameratismo. Ciò che, tuttavia, non sottintendeva un’intransigenza altezzosa, da parte sua, e neppure una sottomissione umiliante, da parte mia. Si trattava, invece, di rispettare le regole di un rapporto fra chi detiene un potere e chi ne dipende. È una forma di reciprocità che, sia pure con possibili frizioni, funziona.
Come, per quel che mi concerne, ha funzionato lavorando per questo settimanale, finanziato dalla Migros, guidata da Hansueli Hochstrasser, direttore, certo alla mano, ma al quale non avrei potuto dare del tu.
Non è, evidentemente, una questione linguistica. Ma quel lei rispecchiava chiaramente una condizione reale, il riconoscimento di un’autorità che, invece, il tu camuffa. Il direttore, anche quello stile compagnone, ha la facoltà di licenziare l’impiegato, presunto amico. Quindi, nell’era del tu generalizzato, ci si sta rendendo conto che quel pronome non è più un simbolo di amicizia e affinità, insomma una garanzia.