Un centro rifugiati galleggiante al posto del carcere australiano

/ 28.08.2023
di Claudio Visentin

Il governo inglese ha da poco approvato un severo decreto per contrastare l’immigrazione clandestina. I numeri preoccupano: nel 2022 quasi cinquantamila persone hanno attraversato la Manica su piccole imbarcazioni e ne sono state registrate già quindicimila nel primo trimestre del 2023. Molti altri sono morti nel tentativo.

Ora la stretta. Cinquecento richiedenti asilo, tutti maschi adulti, saranno imbarcati sulla Bibby Stockholm, una grande chiatta lunga cento metri, con tre piani e duecentoventidue alloggi, ancorata al largo di Portland, nel Dorset, a sud-ovest di Londra. L’idea di fondo è quella già applicata in Australia: chi cerca di sbarcare illegalmente sul territorio nazionale perde il diritto di chiedere asilo e verrà rimandato indietro. Nel caso australiano si finisce nell’isola-prigione di Nauru, nella Papua Nuova Guinea. Gli Inglesi invece, dopo un soggiorno sulla Bibby Stockholm, intendono rimandare i migranti nel loro Paese d’origine, oppure nel lontano Ruanda. Qualcuno ha proposto anche l’isola di Sant’Elena, nell’Atlantico meridionale, uno dei luoghi più remoti al mondo, tanto che ci confinarono Napoleone dopo la fuga dall’isola d’Elba e l’avventura dei Cento giorni.

Per il momento si naviga a vista (anzi non si naviga per nulla), tra i ricorsi delle opposizioni e le proteste dei cittadini di Portland, poco interessati a diventare un centro di smistamento per i profughi. Oltretutto i primi trentanove migranti imbarcati sono stati subito evacuati dopo la scoperta a bordo di un pericoloso batterio, la sindrome del legionario.

Questa notizia di mezza estate mi ha colpito, per diverse ragioni. In primo luogo perché i promotori dell’iniziativa, il premier Rishi Sunak e il ministro degli interni Suella Braverman, sono entrambi figli d’immigrati indiani. Ma anche negli Stati Uniti gli immigrati messicani, una volta insediati, spesso votano per i repubblicani e quindi per una politica di controllo delle frontiere. Soprattutto mi è tornato alla mente un parallelo storico.

Siamo alla fine del Settecento. Nell’Inghilterra avviata verso la Rivoluzione industriale i crimini aumentano, spesso solo a causa della povertà, generando una forte inquietudine sociale. Di conseguenza anche verso prostitute o ladruncoli si ricorre al pugno di ferro. E quando le carceri scoppiano per i troppi detenuti, li si imprigiona in una piccola flotta di tre vecchie navi alla fonda nel Tamigi. Com’è facile immaginare, le condizioni a bordo sono miserabili e la mortalità elevata; nel 1777 un’epidemia di tifo fa strage.

Nonostante questi drastici provvedimenti, il numero di carcerati sembra aumentare senza fine. Vedendoli già stipati su una nave, per una naturale associazione di idee, si immagina di mandarli lontano, per toglierseli dalla vista. Ma dove? Sino a quel momento i criminali comuni venivano mandati nelle colonie americane, ma la guerra d’indipendenza (dal 1776) vanificò questi propositi.

In quel momento d’incertezza ebbe un peso decisivo il consiglio del presidente della Royal Geographical Society, il botanico Joseph Banks. Egli ricordò di essere approdato quindici anni prima, il 29 aprile 1770, sulle coste orientali dell’Australia, a Botany Bay, durante una crociera nel Pacifico guidata dal capitano James Cook. E dunque Banks suggerì alla Camera dei Comuni di creare una colonia penale in Australia. Il 19 gennaio 1788 la Prima flotta, undici navi con oltre mille galeotti, sotto il comando del capitano Arthur Phillip, tornò a Botany Bay. L’insediamento permanente fu poi stabilito un poco più a nord, dove oggi sorge Sydney, ma fu comunque il primo passo verso la trasformazione dell’Australia in una prigione a cielo aperto. Negli ottant’anni successivi 160mila «criminali» vi furono condotti in catene. Quegli uomini e quelle donne sono il nucleo originario della popolazione australiana, anche se i loro eredi impiegarono due secoli per liberarsi dal marchio della vergogna e accettare i propri antenati.

Alla fine, attraverso percorsi imprevisti e qualche pagina infelice (il trattamento riservato agli aborigeni), quella storia disonesta di fine Settecento si è risolta per il meglio ed è stata anzi un nuovo inizio. Così possa avvenire anche per quei poveri migranti confinati sulla Bibby Stockholm.