Un carnivoro tra vegani e vegetariani

/ 13.12.2021
di Bruno Gambarotta

Avevo voglia di visitare il «Vegfestival», un grazioso villaggio nato per illustrare i tanti vantaggi del mangiare vegetariano. Mi frenava il timore che qualcuno, riconoscendomi, lanciasse l’allarme, indicandomi: «C’è un cadaveriano tra di noi! Ha cantato le lodi del bollito misto! Della bourguignonne!».

Timori infondati; il ripudio del cibo di origine animale è una religione mite, gentile, non pretende di convertire con la forza gli infedeli ma di convincerli con solidi argomenti. In questa rassegna i banchi che esponevano libri, riviste e opuscoli erano almeno pari a quelli che proponevano cibarie. Non è solo una pratica ma uno stile di vita, una conversione che deve essere proclamata e servire da esempio virtuoso. Ho così avuto modo di imparare la differenza fra vegetariano e vegano; il primo non mangia carne ma non ripudia i derivati animali come latte e uova, il secondo pratica invece un ideale di rigore assoluto. Era vegano il ristorante allestito nel villaggio che, mi dicono, ha servito il triplo dei pasti previsti, spia di un successo che è andato oltre ogni più rosea aspettativa. Lo gestiva la giovane presidentessa del «Sesamo’s Kitchen», che ha avuto la pazienza di spiegarmi il contenuto delle portate dei due menù proposti, Arca e Stella.

Si rimane colpiti dallo sforzo che gli ideatori fanno per imitare l’aspetto dei cibi che mangiano gli infedeli. Per esempio nell’insalata russa la maionese non è fatta con le uova ma con il latte di soia, però poi si usa la curcuma per colorarla di giallo e farla sembrare «vera». Leggi sul menù «canapè di caviale hiziki» e pensi che le uova se sono di storione e non di gallina vanno bene. Invece no, il caviale hiziki è fabbricato con alghe giapponesi nere tagliate a pezzettini e condite con limone, olio, tanto aglio e prezzemolo. Sono il succedaneo di quelle che per noi sono le acciughe al verde. Il menù prevedeva anche gli «straccetti di seitan» che è un glutine di grano inventato dagli Avventisti del Settimo Giorno per venire incontro a un precetto religioso, la cosa più vicina alla carne di vitello, mentre il «tofu» è il loro formaggio, fatto con il latte di soia cagliato con cloruro di magnesio o succo di limone.

Questo bisogno di mimetizzarsi della cucina vegana, quasi si vergognasse di proporsi nelle sue vesti originali, ricorda molte ricette della nostra cucina povera, tra cui gli stupendi «pesci cavolo», involtini di foglie di verza che avvolgono carne macinata, a imitazione di pesci pregiati fuori dalla portata economica, come anche il ligure «cappon magro». Mia mamma friggeva una metà di fette di funghi porcini e l’altra metà di fette di melanzana. Con i prezzi attuali delle verdure, conviene friggere soltanto funghi e far credere che siano melanzane. Alla fiera mescolano un tartufo vero con quelli finti che finiscono per prendere il suo profumo.

Uno degli argomenti forti usati dai missionari del mangiare vegetariano è il racconto sulle condizioni atroci nelle quali sono costretti a vivere gli animali da macello. Enrico Moriconi, medico veterinario e promotore di «Vegfestival», ha scritto un libro per documentare le sofferenze inflitte agli animali, Le Fabbriche degli Animali, mucca pazza e dintorni. Se lo leggi e soprattutto visiti una di queste «fabbriche» difficilmente poi torni a mangiare carne. Come fare? Per latte, formaggio e uova non ci sono ostacoli etici per continuare a nutrirsene.

Ma per la carne? Non si può tornare ignoranti. Si potrebbe adottare un animale da macello, seguirne la crescita, andarlo a trovare la domenica, ma poi va a finire che ti affezioni e lo lasci morire di vecchiaia. (Esiste il geriatra tra i veterinari?) A me piacciono le ali di pollo bollite e fritte nel sesamo: si potrebbe tagliargliele in anestesia al day hospital, tanto loro già prima non le usavano per volare, ma poi chi avrebbe il coraggio di guardare in faccia il pollo mutilato per il nostro piacere?

Intanto però un dato è certo, questi apostoli del mangiare vegetariano, come tutti i posseduti da una passione totalizzante, hanno espressioni intense e una luce negli occhi che noi, chini sul carrello dei bolliti, abbiamo perso. Come sono belle queste donne che non si truccano, che portano sul viso i segni del passare del tempo e delle esperienze vissute, che lasciano ai capelli il loro colore naturale! Esci dal villaggio e ti ritrovi a passeggiare fra rotoli di ciccia debordanti e fragili fantasmi che calzano scarponi da traversata delle Ande.

Mi affretto a tornare a casa: prima che arrivi mia moglie voglio togliere dallo sportello del frigo la targhetta adesiva che recita: «Io ti amavo. Poi hai fatto le pappardelle al ragù di soia».