«Cosa ci facciamo qui». Quella di Giovanni non è neppure una domanda, forse solo una constatazione. La città è deserta e questo dove sediamo dev’essere l’unico bar aperto del quartiere. Oltretutto siamo gli unici clienti. Le serrande dei negozi sono tutte abbassate, per sopravvivere bisogna affidarsi alla grande distribuzione. «Non c’è rimasto nessuno», aggiunge l’amico senza timore di cadere nell’ovvio.
Mi scuoto dal torpore indotto dalla calura del tardo pomeriggio e mi guardo in giro. In effetti è proprio così. «È il revenge tourism», spiego con l’aria di chi la sa lunga. «Il termine è stato coniato un po’ per scherzo all’inizio dell’estate, ma ora sta prendendo piede». «Di chi vogliono vendicarsi andando in vacanza?» chiede Giovanni. «Di nessuno» rispondo. «Semplicemente i turisti vogliono recuperare il tempo perso nella forzata immobilità della pandemia e si muovono incessantemente, come se li avesse morsi una tarantola».
«E lo slow tourism che fine ha fatto?» continua l’amico assicurandosi l’ultima patatina di uno striminzito aperitivo. «C’è ancora, come tutte le altre nuove forme di turismo, ma in agosto la spiaggia la fa da padrona e tutto il resto deve aspettare il suo turno». «Lo stesso di quand’ero bambino» commenta Giovanni. «Da un giorno all’altro la città si trasformava in un deserto. Lunghe file di auto si incolonnavano ai caselli autostradali per venire poi sputate fuori qualche ora dopo, alcune centinaia di chilometri più a sud, sulle rive del mare. I miei erano poveri. Andare in vacanza voleva dire avercela fatta, prendersi gioco della miseria passata. Era una grande festa, un carnevale fuori stagione. Per questo si partiva tutti insieme, negli stessi giorni, verso gli stessi posti. Andava bene così».
Lo interrompo canticchiando una vecchia hit: «Per quest’anno non cambiare / stessa spiaggia, stesso mare». «Proprio lui!» esclama Giovanni. «Piero Focaccia, bagnino di Milano marittima prestato alle canzoni, protagonista dell’estate 1963 con un testo ripetitivo e ipnotico, scritto peraltro da Mogol. Chi restava in città cantava invece “Azzurro“ con Celentano: “Cerco l’estate tutto l’anno / E all’improvviso eccola qua / Lei è partita per le spiagge / E sono solo quassù in città”. Il testo è di Paolo Conte, per dire chi scriveva brani di successo in quegli anni. In nessun’altra canzone il mare e la spiaggia sono tanto presenti, perché la lontananza moltiplica il desiderio». «Era mezzo secolo fa però» obietto. «Dopo di allora la vacanza era diventata più internazionale, più personale, insomma si cercava di distinguersi no? E allora perché qui ci siamo solo noi?». «È vero» ammette Giovanni insolitamente conciliante. «In effetti ci distinguiamo non poco, essendo gli unici rimasti, come gli snob di una volta che in agosto si vantavano di stare a casa quando tutti partivano. Ma si vede che epidemie, guerra e inflazione hanno riportato indietro le lancette dell’orologio e adesso anche gli snob sono in riva al mare. Del resto Dio sa se c’è bisogno di leggerezza». Il silenzio torna tra noi. «Siamo nel 2022» riprendo dopo un po’. «Che senso ha questa completa sospensione di ogni attività? Si è tanto parlato di partenze intelligenti, vacanze scaglionate, calendari scolastici flessibili e invece eccoci qui, in questa riedizione degli anni Sessanta, come certi vecchi film che passano solo d’estate alla televisione. Ieri pomeriggio infatti davano proprio il classico Domenica d’agosto, 1950, diretto da Luciano Emmer, il racconto di una giornata sul litorale di Ostia».
«Chissà, forse è meglio così» risponde Giovanni. «Almeno una volta l’anno ci si ferma. La nuova flessibilità post epidemia, il telelavoro e tutte quelle meravigliose invenzioni spesso vogliono solo dire non staccare mai, rispondere a messaggi e telefonate quando dovresti riposare. Il lavoro flessibile spesso è inflessibile». Per un momento mi ribello a tanto fatalismo. «Ma l’autunno? Almeno lasciami sperare che non sarà la solita occasione perduta. L’autunno è una stagione perfetta per i viaggi, molto più fresca di questo agosto infernale per cominciare; e poi si raccoglie l’uva, le castagne e ogni ben di Dio».
Giovanni non risponde. Ormai si è distratto e guarda lontano, verso il sole rossastro che tramonta sui palazzi in costruzione, chiudendo in modo scenografico questo giorno d’agosto preso in prestito agli anni Sessanta.