Tutti vogliono una grande festa

/ 20.08.2018
di Natascha Fioretti

«Tutti vogliono una grande festa, un’estate tridimensionale, il mondo vuole una grande festa vieni quassù…». L’avrete riconosciuto il ritornello di una delle canzoni più gettonate di quest’estate che reclama la nostra voglia di andare al mare e di divertirci a qualunque costo. Se sulle prime sembra una canzonetta leggera, nelle parole di Carboni ho ritrovato una delle immagini della nostra società. Una società che vuole una grande festa, argomenti pop di cui discorrere e possibilmente meno fastidi da affrontare. Non rientrano nella categoria pop la morte, la rabbia, l’ingiustizia o il dolore.

Vogliamo una grande festa e in fondo la vogliamo tutto l’anno. Se vi guardate in giro non avete la stessa impressione? Pensate alle vostre vite, a quelle dei vostri amici, conoscenti, colleghi, ai loro profili social. Non avete anche voi l’impressione che grazie alla tecnologia e alle sue mille risorse sempre di più costruiamo attorno a noi delle grandi bolle che ci avviluppano e ci contengono? Bolle tecnologiche fatte di dati, di profili, di immagini, di aspettative che ci anticipano, ci precedono, precedono il nostro essere, la nostra identità più profonda, l’unica vera che non sta sui social. E con le nostre bolle, nell’età della globalizzazione, andiamo ovunque, ci muoviamo veloci, ci adattiamo a qualsiasi aereo e città, siamo sempre connessi, sempre sul pezzo, mai fermi e mai soli. E se c’è qualche problema la tecnologia lo risolverà. L’importante, come canta Carboni, è essere sempre pop, stare sempre al top. E che non ci vengano a dire che non siamo nudi e puri, perbacco, le nostre bolle sono trasparenti!

In fondo oggi non è tutto trasparente e tutto democratico? E mentre ci sentiamo al sicuro nelle nostre bolle perfette con tutte le connessioni, i profili e le amicizie in ordine, fuori sentiamo dell’emergenza migranti, della grave crisi della Turchia, di un presidente americano che nega il problema del cambiamento climatico, di un governo italiano populista che sale al potere in nome del cambiamento e in realtà lo usa a suo piacimento, vedi l’irritante questione sulla presidenza RAI. Ma noi nelle nostre bolle siamo tranquilli, il nostro circoscritto ambiente è ancora sano, tutt’al più ogni tanto mettiamo un like o una faccina arrabbiata per mettere in chiaro le nostre preferenze e dire da che parte stiamo. Non è così che si fa oggi?

Riflettendo su tutto questo mi è tornata in mente Sherry Turkle, sociologa e tecnologa statunitense che si occupa di studi sociali nel contesto delle relazioni tra tecnologia e soggetti umani. Da sempre una grande fautrice della tecnologia e di Internet nel suo saggio del 2011 Alone Together: Why We Expect More from Technology and Less from Each Other ha iniziato a raccontare le sue perplessità dicendo che di questo passo la tecnologia ci porterà in luoghi dove non vorremmo essere. E a distanza di sette anni, se ci concentriamo sul titolo del suo libro, forse ci siamo già arrivati: Da soli insieme: perché ci aspettiamo di più dalla tecnologia che da noi stessi. Perché ci illudiamo che la bolla possa traghettarci ovunque, riflettere qualsiasi identità vogliamo e risolvere qualsiasi impasse. E allora l’attenzione si sposta, non è più dentro di noi ma fuori di noi con l’illusione, ad un certo punto, che quel fuori sia anche dentro. E in quella che diventa una debolezza, una mancanza, noi ci sentiamo pure invincibili.

In una delle TED Conference alle quali Sherry Turkle ha partecipato, ha detto «i piccoli dispositivi che portiamo nelle nostre tasche sono così potenti psicologicamente che non modificano cosa facciamo ma chi siamo». Per questo oggi auspica di riconsiderare il modo con il quale costruiamo e disegniamo i nostri strumenti digitali in modo da permetterci una relazione più consapevole con essi e con noi stessi. Una relazione senza filtri, senza bolle di sorta e senza illusioni. E su questa parola «illusione» torneremo nella prossima puntata.