Tutti scrittori

/ 30.11.2020
di Luciana Caglio

Prima o poi, nei talkshow, arriva il momento del libro. Ospite ormai fisso si presenta in modi diversi. Visibilmente, sin dagli inizi, in mano al suo autore o al recensore d’ufficio. O furtivamente, a fine trasmissione, quando sembra sbucare da sottobanco, giustificando così la partecipazione di un personaggio, a prima vista estraneo. Spesso, si tratta di un cantante, di una diva, di uno sportivo, appartenenti alla crescente categoria degli «ex» in cerca di rilancio, appunto come scrittori. E qui i nomi si sprecano.

Ecco comparire sul video, nell’insospettata veste d’autrice, Alba Parietti, che non è, neppure, alle prime armi. Se, in pagine precedenti, aveva confermato il suo impegno politico, virtù familiare ereditata da un ormai citatissimo zio (o nonno) partigiano, adesso in Da qui non se ne va nessuno, lancia un SOS femminista. Insomma, donne ribellatevi ai maschi, non svendetevi. E se lo dice lei. Ma l’apice dell’assurdità si tocca con Come ho inventato l’Italia. L’autore, infatti, è Fabrizio Corona, un curriculum di malavitoso, mai pentito, e di eroe del trash da rotocalco. Tuttavia, qui sta il mistero, è riuscito a farsi pubblicare dalla Nave di Teseo, casa editrice diretta con scrupolo selettivo da Elisabetta Sgarbi. Ora, avrebbe potuto essere un nuovo fenomeno letterario, per la serie genio e sregolatezza. Invece, il libro riflette il vuoto creativo e la spocchia di un fanfarone megalomane, in fin dei conti ridicolo. Con ciò, ottiene uno spazio televisivo rilevante: mezz’ora, la domenica sera, nell’«Arena» gestita da Giletti, conduttore specializzato in denunce dei guai che affliggono la Penisola. Fra i quali figura, adesso, anche l’uso strumentale del libro. Come dire, un’opera, letteraria o divulgativa, diventa un mezzo per comparire e pubblicizzarsi.

Sia chiaro, non se ne servono soltanto gli incapaci rozzi, bensì gente del mestiere, giornalisti collaudati come Bruno Vespa che, sotto Natale, propone il volume di rito: quest’anno, s’intitola un po’ ambiguamente Perché l’Italia amò Mussolini. E se ne servono ampiamente i politici, a ogni latitudine. A cominciare da Barack Obama che ha presentato il primo volume di una ponderosa autobiografia: A Promised Land, tiratura iniziale 3 milioni, traduzioni in 25 lingue. Una gigantesca «Macchina narrativa», come si leggeva sul domenicale della NZZ, con cui Obama potrebbe battere Rowling, l’autrice di Harry Potter. Facili ironie a parte, il libro tenta i politici, più che mai nell’era Covid che li ha messi duramente alla prova. In Svizzera, dove la discrezione è di casa, Alain Berset si racconta in un volume, pubblicato in italiano da Casagrande. Finora, a quanto pare, il nostro Paese è stato risparmiato dalla straripante saggistica firmata da virologi, epidemiologi, ricercatori: figure vittime della sovraesposizione mediatica. In Ticino, il medico cantonale e i primari d’ospedale parlano con moderazione, e non scrivono. Certo, il lockdown (parola dell’anno consacrata dal dizionario di Oxford) ha contribuito ad alimentare la voglia di scrivere assegnandole una funzione terapeutica. Che, però, non rappresenta una novità in assoluto.

Novembre è, per tradizione, il mese destinato alla presentazione di primizie letterarie e, non da ultimo, dei cosiddetti volumi-strenna, più da sfogliare che da leggere. Ma tant’è. Non è il caso di fare il processo alle intenzioni e neppure condannare il fenomeno dei tanti, troppi libri. Proprio su questo settimanale, molti anni fa, nella rubrica «Fogli segreti», Giovanni Arpino si domandava se, come sosteneva Cioran, «scrivere libri non è, in qualche modo, in rapporto con il peccato originale». Una sorta di colpa, insomma, che implica un riscatto, a prova di contraddizioni. «Per scrivere un romanzo bisogna sapersi astrarre dal mondo. Ma della realtà del mondo si ha anche bisogno». In altre parole, una gran fatica e il rischio dell’insoddisfazione. Su cui Arpino riesce a scherzare: «Se rileggendomi non mi piacerò, infilerò la mano destra nel tritacarne». 

Oggi, grazie al computer, questa fatica ci viene risparmiata, almeno quella fisica. In quanto a quella intellettuale, rimane questione d’autocritica. Che non sempre interviene. Ed è, in definitiva, il bello della democrazia: i tanti libri, belli o brutti, sono un indizio di libertà.