Quando si dice perfezionismo elvetico. Ne offre la conferma, una volta ancora, il Museo nazionale di Zurigo, con la mostra che riunisce le migliori immagini giornalistiche dell’anno, selezionate dalla Fondazione World Press Photo, fra ben 80mila scatti, provenienti da ogni parte del mondo. Ora, al di là dei valori, sul piano dell’estetica, dei contenuti, dell’efficacia (di cui aveva riferito, per «Azione», il collega Ovidio Biffi), queste opere giustificano anche una constatazione, per così dire, consolatoria. Stanno a dimostrare che la fotografia, mestiere, vocazione o arte che sia, esiste ancora. E diventa appunto, una scelta di vita, seria ed esigente: persino rischiosa, come nel caso dei reporter sui fronti caldi dell’attualità, o, intellettualmente e moralmente impegnativa, come nel caso dei cronisti «visivi», capaci di registrare ciò che, realmente, merita curiosità, attenzione, commozione. Un’immagine azzeccata dice ben di più di un lungo articolo. Insomma, la fotografia trova qui un riscatto, più che mai urgente, nell’era dei «tutti fotografi» in cui siamo immersi, anzi sommersi da una sovrabbondanza di immagini, fine a se stessa.
Susan Sontag, scrittrice e sociologa spesso discussa e discutibile, aveva denunciato, anzi presagito, proprio questo pericolo, in un saggio, ormai storico, Sulla fotografia, dove sosteneva che «l’eccesso di immagini scioccanti produce assuefazione». Si era nel 1977 e l’autrice aveva colto nel segno un fenomeno destinato ad allargarsi a dismisura: l’eccesso di immagini d’ogni genere e qualità, che finiscono per sovrapporsi e annullarsi reciprocamente. Provocando indifferenza da saturazione, e appunto, una sorta di assuefazione persino a sofferenze e scandali. La foto di un attentato Isis annulla, automaticamente, quella di un episodio precedente, senza lasciare traccia. Come se l’abbondanza e la puntualità, con cui le immagini ci raggiungono, contribuissero a banalizzarle e attenuarne l’impatto emotivo.
Certo, in questo rifiuto delle testimonianze visive di disastri irrisolvibili, ha la sua parte il cinismo, alla stregua di una forma di difesa, persino scaramantica, per proteggersi da minacce sempre incombenti. Come dire, se non le vedi, non ci sono. In verità, a determinare nuovi sentimenti e comportamenti, nei confronti della fotografia in generale, è stata un’evoluzione tecnologica dagli effetti portentosi e, in pari tempo, ambigui. Di cui si è diventati fruitori e vittime, come sempre succede. Grazie allo smartphone, sempre più raffinato, ci siamo sentiti abilitati a svolgere un ruolo, facile dal profilo materiale, che però ci trovava impreparati, culturalmente e psicologicamente. Certo, ci offre la comodità e il piacere di registrare, in continuazione, la nostra quotidianità, attraverso volti di amici, sorrisi di bambini, scorci di paesaggi suggestivi, oggetti desiderabili, opere d’arte esposte in musei, e via dicendo: sono infinite le situazioni, considerate degne di uno scatto. Affidato, in particolare, al selfie, diventato il simbolo di una nuova forma di narcisismo che sta preoccupando educatori e psichiatri. Ed è lo scotto da pagare, quando si affrontano le derive che, paradossalmente, accompagnano ogni progresso tecnologico, scientifico, persino politico, mettendo a disposizione della collettività ambiti e obiettivi, un tempo riservati a pochi privilegiati. Le scorciatoie sono comode, attraenti ma illusorie.
Tutti fotografi, ma come? Qui si aprono interrogativi imbarazzanti, d’impronta persino reazionaria, come succede quando si mettono in dubbio i vantaggi della tecnologia. Infatti, come arginare il contagio della smania fotografica, come difendersi dai selfie, alzati a barriera davanti a un quadro famoso, come ribadire che sforzo e fatica sono inevitabili per riuscire, persino maneggiando uno smartphone? E, poi, che fine faranno queste immagini digitali che affollano l’orizzonte virtuale? In un passato, neppure lontanissimo, le fotografie che suggellavano ricorrenze particolari, erano poche e costose, e trovavano permanenza nelle pagine degli album. Erano scattate da fotografi professionisti o da familiari che avevano frequentato, diligentemente, i corsi della Scuola club Migros. Non ci s’improvvisava in un ruolo che, allora, non era di tutti. E forse non lo è neppure adesso.