Spetta a Joseph Beuys, stravagante esponente dell’avanguardia del secolo scorso, la paternità dello slogan «Ogni uomo è un artista». Si era negli anni 70 e quelle parole rispecchiavano lo spirito dell’epoca, segnata dall’avvento della società di massa: cioè consumi di massa, mezzi d’informazione di massa, turismo di massa e anche cultura di massa. Un ambito, quest’ultimo, che stava accogliendo nuove forme espressive, dal cinema alla televisione, alla grafica, al design, alla musica popolare. Aprendo così uno spazio ad altre categorie di operatori: non soltanto i professionisti della cultura ufficialmente legittimata, ma persone comuni, possibili portatrici di un talento «creativo». Un termine, a sua volta, sintomatico, che avrà successo. Da aggettivo diventerà sostantivo, e come tale Ottavio Lurati lo registra, nel 1987, quando entra nel linguaggio corrente per definire una nuova figura professionale, attiva, in particolare, nel settore pubblicitario. E, con creativo, si diffonde «creatività», di cui si doveva fare un uso inflazionato, tanto da assumere i connotati di un obbligo: se, come aveva anticipato Beuys, il talento artistico è una dote naturale, magari dormiente, si deve risvegliarlo.
Degli effetti di questo risveglio siamo tutti quanti, spettatori e spesso protagonisti, per forza di cose. Rubando le parole a Gillo Dorfles, ancora a 106 anni inimitabile maestro, ci si trova in «un mondo troppo pieno, troppo gremito, troppo affollato, dove l’eccesso e la pienezza preclude la vista e la conoscenza di singoli momenti, oggetti, eventi. Si vive in un inquinamento da immagini».
Ora questa sovrabbondanza, che concerne prodotti culturali, libri, spettacoli, mostre, idee, se ha creato confusione, sul piano dei valori, sottintende però un clima favorevole di libertà, sul piano sociale, economico, persino politico, un sintomo di democrazia. Insomma, è stato possibile, per molti, dar seguito al bisogno e al piacere di sviluppare abilità, materiali e intellettuali, prima di allora represse e nascoste. E non soltanto fine a se stesse, destinate all’ambito privato dell’hobby, praticato a titolo ricreativo e psicologicamente rassicurante, appagando insomma una giusta ambizione intellettuale associata al recupero della propria manualità. Infatti, quel motto «Ogni uomo è un artista» doveva trovare sbocchi concreti in svariati settori dell’economia, anzi della «Creative Economy».
Secondo lo storico dell’arte tedesco Christian Saehrendt, si è stabilito un legame fra esigenze di mercato e talenti espressivi: la sorte di un prodotto è sempre più una questione di lancio. Dipende dalla famosa creatività di chi scrive uno slogan, disegna un involucro, realizza uno spot. E, sin qui, nulla da eccepire. In Svizzera, secondo le statistiche, sarebbero ben 450’000 gli addetti ai lavori , che sfruttano, direttamente o indirettamente, un presunto talento innato: giornalisti compresi, figurarsi! Ma non tutti i detentori del germe creativo accettano di mettersi al servizio dell’economia, rispettando le regole del sistema. Altri preferiscono scegliere la via della piena libertà in cui cimentarsi, affrontando rischi e malintesi.
Qui, come sempre succede di fronte a un movimento innovativo, si ripete una vecchia storia. Un esempio classico: la parola impressionismo era nata come insulto. Sono però cambiate le dimensioni del fenomeno. Il numero di questi ribelli creativi si è esasperato e, adesso, siamo piombati nella stagione di «una mostra al giorno…». Ciò che induce a chiedersi: saranno tutti artisti? In proposito, ecco una notizia rivelatrice che arriva dagli USA. Un gruppo di artisti si è fatto pubblicamente l’esame di coscienza collocando, davanti al Metropolitan Museum, di New York quattro contenitori che recano la scritta «Throw Your Art Away»: butta via la tua arte. Circola, insomma, anche ciarpame, camuffato magari da provocazione, invecchiata. È il caso dell’asse di WC dipinto da Lee Lozano, riproposto in una collezione privata a Palazzo Grassi, a Venezia.
Non sempre, concludendo, vale la pena di risvegliare l’artista che sonnecchia in ognuno di noi.