Tsunami nostrani

/ 30.01.2017
di Cesare Poppi

«Ma non vedete che tempo strambo?! Strambe le temperature, stramba la neve, stramba la pioggia che non c’è e più strambo ancora il terremoto – e ades l’è vegnesta stramba anca me femena (“e adesso è diventata strana anche mia moglie”)». Così diceva qualche sera fa un aficionado ormai in po’ in età come sono quasi tutti coloro che frequentano le sezioni locali dell’Associazione Nazionale Alpini per bere un bicchiere o tre prima di cena. Dove e chi non lo diremo per via della privacy: basti dire che di simili indirizzi urbi et orbi – magari al netto della sicuramente inconsapevole citazione vudialleniana – ce ne devono essere state molti al di qua delle Alpi negli ultimi tempi. L’ondata anomala di maltempo con la micidiale combinazione del terremoto nell’Appennino Centrale ha riportato in superficie le paure recenti del terremoto dell’Aquila e dintorni per allargarsi inevitabilmente alla discussione sui massimi sistemi.

Per l’Altropologo la locale sezione dell’Associazione Alpini costituisce una miniera inesauribile non solo di storie di vita vissuta, ma anche un osservatorio privilegiato sugli umori e le tendenze di quell’entità antropologica fondamentale per il costituirsi dell’umanità in generale che va sotto il nome di «cultura popolare». E il maltempo rimane materia di discussione a tutt’oggi, mentre scrivo e viste le temperature polari che qui, nelle Alpi Orientali, paradossalmente si accompagnano a giornate soleggiate ed incendi di fienili per via della siccità. «Adesso Quello Là sostiene che va bene se anche i SUV bruciano stracci che tanto l’effetto serra e il riscaldamento globale sono tutte invenzioni dei professori: prenderlo e metterlo a sedere nella Tesa [la Tesa essendo il rio dalle acque gelate che corre da queste parti] a vedere se gli passa la sbronza – a Quello Là!». «Quello Là», pronunciato con un’enfasi sulla «Q» e la «L» da lettere maiuscole per via del rispetto dovuto, è il nome col quale il Nuovo Inquilino della Casa Bianca entra ormai nei reportage più o meno conditi di aggettivi irriferibili di commentatori ai quali mancherà tutto ma non certo, da ottimi montanari, una cruciale dose di buonsenso.

E così, mentre prende appunti e misura il polso alla cultura popolare, la riflessione dell’Altropologo svaria su temi analoghi per trovare collegamenti con altri eventi ed altri contesti. Anni ed anni fa, giovane dottorato alle prime armi coi convegni, mi capitò di andare a Cardiff, la capitale del Galles, e provare anch’io a misurarmi coi big. Alloggiavo in un alberghetto senza pretese – anzi, decisamente non di qualità svizzera – non lontano dalla banchina sul mare. Ricordo ancora l’afrore di umidità mista a puzzo di cicca di sigaretta: mi colpì ancora di più in quanto sulla parete del corridoio che conduceva alle camere un cartello storto ed ingiallito dal tempo diceva: «Non fumate a letto: ricordatevi dell’incendio di Londra del 1666». Fin qui tutto bene: sapevo per averlo letto di quando in quando nelle cronache nere di certi giornalacci quotidiani, che molti sudditi britannici (allora) fumavano l’ultima della giornata a letto, dove magari si portavano anche l’ultima pinta: poi si addormentavo con pinta vuota e sigaretta accesa e via: lo spettro dell’incendio che nel 1666 distrusse due terzi di Londra, inclusa la cattedrale di Saint Paul, gravava ancora come potente monito sulla coscienza della Nazione. E fin qui tutto bene. Ma, accanto al cartello, direttamente sulla carta da parati ingiallita dal tempo e dal fumo, una mano malferma aveva aggiunto, in stampatello: «Non sputate per terra: ricordatevi della Grande Inondazione».

Ero rimasto allora non solo divertito dall’arguzia del grafomane, ma anche perplesso su cosa dovesse intendersi per Grande Inondazione. «The Great Flood» in questione era di sicuro – o così credevo – il Diluvio Universale. «No – young gentleman – mi dispiace ma devo contraddirla». Così un gentleman avanti con gli anni, con gli acciacchi e certo con le pinte già bevute, col quale mi ero trovato la sera a chiacchierare al pub «The Great Flood» (e qual’altro mai?), laggiù verso il molo antico, che sapevo frequentato da marinai in pensione ed altra simile fauna antropologica. Fu così che imparai che per Grande Inondazione si intende a Cardiff, come in tutta la zona dall’una e dall’altra sponda del Canale di Bristol, un’ondata di marea di portata inaudita che il 30 gennaio 1607 – esattamente quattrocentodieci anni orsono – devastò l’intera regione. Duecento miglia quadrate, pari a 51’800 ettari, di terreno coltivato finirono sott’acqua. L’ondata penetrò fino a 23 chilometri all’interno spazzando via interi villaggi. Le difese marine di Cardiff collassarono come un muro di sabbia. L’acqua penetrata in città arrivò a minare irrevocabilmente le fondamenta della Cattedrale stessa. A Weston-super-Mare, di fronte a Cardiff sulla costa Sud del Canale, l’acqua dell’ondata arrivò ad un’altezza di 7,74 metri sul livello del mare. Vi furono almeno 2000 vittime, alle quali andarono ad aggiungersi innumerevoli dispersi.

Allora si disse che fosse il Castigo di Dio. Poi si suppose una micidiale combinazione di venti forti occidentali ed eccezionali maree – che nel canale di Bristol raggiungono anche i tredici metri. Solo di recente pare che la verità sia che a causare The Great Flood sia stata un’onda di tsunami innescata da un terremoto nel Mare d’Irlanda. Sia come sia: all’Altropologo piace pensare alle generazioni di marinai laggiù ed alle loro controparti di alpini quavvia, che hanno passato avanti – fra una pinta di birra ed un bicchiere di vino – il testimone di memorie, quelle forti, che ci rendono tutti più umani.