Trump l’irriducibile

/ 09.11.2020
di Aldo Cazzullo

È stata una lunga notte; e saranno lunghe giornate di discussioni e di ricorsi. All’inizio della serata elettorale si pensava in una vittoria larga di Joe Biden. A un certo punto, memori di quattro anni fa, mentre affluivano i primi risultati molti tra noi hanno creduto che stesse vincendo Trump. In realtà, per Biden è quasi fatta; anche se ci attende un’aspra battaglia legale, una stagione difficile di incertezza. Resto convinto che nei prossimi quattro anni alla Casa Bianca avremo il candidato democratico.   

Ancora una volta, però, gli elettori americani ci hanno colti di sorpresa. La colpa non è soltanto dei sondaggisti. La responsabilità non è soltanto dei trumpiani non dichiarati, che dei sondaggisti sembrano farsi beffe. L’errore culturale è di (quasi tutti) noi europei, e pure dei democratici americani; i quali non si sono ancora resi conto che Donald Trump non è un candidato debole. Nonostante la chioma dal colore introvabile in natura, il linguaggio improponibile, i modi aggressivi – o forse anche per questo –, Trump è un candidato fortissimo. Perché tiene tutti gli Stati e tutti i voti repubblicani; ed è competitivo in molti Stati democratici. Perché fa breccia tra i ceti popolari; che i democratici, per come sono diventati, faticano a rappresentare.   

A lungo i repubblicani hanno pensato di riconquistare la Casa Bianca con un centrista. Un moderato, alla Mitt Romney. O un conservatore classico, magari interventista in politica estera, com’è stato Bush junior e come sarebbe stato John McCain. Invece sono tornati alla Casa Bianca, e la stanno difendendo con le unghie e con i denti, grazie a un radicale. Che però riesce a pescare voti anche nel campo avverso. Trump vince gli Stati in bilico come Ohio, Florida, Iowa. E si conferma competitivo anche in Stati democratici come Wisconsin, Michigan, Pennsylvania. Per due motivi. Perché non si presenta come un moralista bacchettone (tanto i voti dei moralisti bacchettoni li ha già), ma come uno sgargiante miliardario newyorkese, libertino e libertario, incarnazione del sogno e del modo di vivere americano. E soprattutto perché non è un politico di professione, non ha passato la vita a Washington, non sopporta i rituali e il linguaggio della politica. Riconoscere questo non significa amare Trump, e neppure negare il degrado che ha portato nel linguaggio e nei modi della discussione pubblica. Significa cercare di capirlo. E di capire quella metà dell’America che vota per lui.   

Sarebbe sbagliato anche sottovalutare Joe Biden. Battere un presidente in carica non è mai facile. A maggior ragione battere un lottatore come Trump, che è riuscito non solo a fare cinque comizi al giorno in cinque Stati diversi ancora convalescente dal Covid, ma anche a usare il Covid – come simbolo nel nemico cinese, come segno dell’irriducibilità e della quasi invulnerabilità dell’America – pur avendo sbagliato la gestione della pandemia. E i democratici, che avevano puntato su rigore e responsabilità, non hanno intercettato il sentimento di rabbia e insofferenza che spira dal Paese profondo.   

Nonostante questo, Biden è quasi il presidente. Trump farà di tutto per non riconoscere una vittoria democratica che ormai però appare chiara, sia pure molto meno netta rispetto ai sondaggi della vigilia. Biden è riuscito a mobilitare il voto latino in Arizona e – sia pure in misura insufficiente – il voto nero in Georgia e North Carolina. Ma non è riuscito a recuperare, se non in parte, il voto dei ceti medi impoveriti, e quello bianco e operaio degli Stati postindustriali. Un candidato più giovane e fresco forse avrebbe fatto meglio di lui. Ma è anche possibile che un esponente della sinistra ribelle e socialisteggiante, lanciato contro un tipo come Trump, si sarebbe schiantato.   

Resta un dato oggettivo: la destra americana, per quanto vitale, ha un problema. Tra il 1968 e il 1992, i repubblicani hanno vinto tutte le presidenziali, salvo l’effimero successo di Carter nel 1976. Per due volte hanno conquistato tutti gli Stati: Nixon nel 1972, tranne il Massachusetts, e Reagan nel 1984, tranne il Minnesota (in entrambi i casi va aggiunto il distretto della capitale Washington). Ma è dal 1992 che i repubblicani non ottengono la maggioranza del voto popolare, tranne George Bush figlio nel 2004. Com’è noto, questo è solo un dato statistico; il meccanismo elettorale è un altro, incentrato sugli Stati. Bush junior nel 2000 e Trump nel 2016 sono diventati presidenti avendo preso meno voti del loro avversario. Ma non sempre può funzionare. Resta per i repubblicani il problema di allargare la loro base, il cui fulcro restano i maschi bianchi: che hanno governato per secoli un’America diversa da quella di oggi. Alcuni candidati hanno dimostrato di saper andare oltre; ma a volte non in modo sufficiente. Così il Grand Old Party ha perso quella egemonia che aveva mantenuto saldamente negli ultimi decenni del Novecento, con risultati non trascurabili tipo vittoria della guerra fredda sul blocco sovietico e rafforzamento del primato economico, tecnologico e militare dell’Occidente.   

Non è questione solo di saper dialogare con le minoranze, di coinvolgere di più le donne. Si tratta di limare qualche spigolo, di rinunciare a qualche radicalità. Perché ad alzare troppo la voce si vincono le primarie, si conquista il centro della scena; ma poi magari le elezioni, quelle vere, si perdono.