Trump incriminato, è tutto vero ma sembra finto

/ 03.04.2023
di Carlo Silini

La notizia dell’incriminazione di Donald Trump ci è giunta poche ore prima che questo giornale entrasse nei rulli della rotativa per la stampa. È una tempesta mediatica, a partire dal nomignolo della pornostar che a quanto pare ha avuto la sua lucrosa avventuretta con l’ex presidente americano (tre minuti di sesso, secondo l’interessata, e sotto sotto questo è il dettaglio più imbarazzante per il super macho col ciuffo giallo). Lucrosa non tanto per il compenso della prestazione, ma per i soldoni – 130 mila dollari – sganciati diversi anni dopo da Trump per salvarsi la campagna elettorale, un finanziamento in nero per tacitarla e far sparire dalla propria biografia l’intemperanza coniugale. Si faceva chiamare Stormy (in italiano «tempestosa») Daniels, e a pensarci oggi sembra un nome inventato per una sceneggiatura di film di serie B o C tendente al trash.

In realtà non dovremmo stupirci: il trash è uno dei tratti caratteristici della cultura o subcultura trumpiana.

Non sappiamo ancora in che modo questa clamorosa notizia si svilupperà nei prossimi giorni, ma a caldo proviamo un forte senso di straniamento. Perché l’ex presidente americano ci aveva abituati fin da subito a clamorosi colpi di scena, trasmettendoci sotto pelle l’impressione costante di trovarci sul set di un filmone hollywoodiano. Forse è questo il suo talento maggiore, la capacità di farci sentire come dentro un film, appunto.

Da questo punto di vista, l’uomo di spettacolo Donald Trump non delude mai. Lo straniamento, tuttavia, dipende anche dalla fattispecie della vicenda. Se un presidente americano deve proprio finire incriminato, ci si aspetterebbe un genere di reato più impressionante. Nixon, per dire, si era dimesso nel 1974 per uno scandalo, il Watergate, di natura assai più raffinata (le famose intercettazioni illegali nel quartier generale dei democratici a Washington). In realtà non è così, già Clinton aveva rischiato l’impeach-ment nel 1998 per i rapporti, diciamo così impropri con la stagista Monica Lewinsky.

L’America, o almeno una parte di essa, resta piuttosto bigotta. Ma non facciamoci distrarre dal sesso (che fa sempre spettacolo). Sul piano dell’immagine – e del diritto – ciò che negli Stati Uniti non viene perdonato, non è la scappatella extraconiugale con l’avvenente tentazione di turno, è la menzogna. Nella mente semi puritana di molti americani più del comandamento che esige di non commettere adulterio, qui è stato violato quello che impone di non dare falsa testimonianza. In questo senso, Trump è caduto nella trappola dantesca della pena del contrappasso. Proprio lui, che aveva lanciato il tema filosoficamente aberrante della post verità, lui, il campione mondiale delle fake news ad uso politico, è stato giudicato colpevole di bugia o almeno incriminato in quanto tale dal Gran Giurì di New York. Non sappiamo come andrà finire questa storia, anche se non ci sono dubbi che inciderà in modo assai significativo sulla campagna presidenziale del 2024, ma ci sentiamo ancora un po’ intontiti, come quando usciamo da una sala di un cinema dopo un film pieno di effetti speciali e di trame e sotto trame surreali. Trump incriminato sembra vero e finto allo stesso tempo. L’intelligenza artificiale lo aveva già mostrato a tutto il mondo in manette, e con la tuta da carcerato. Fino a venerdì pensavamo che fossero solo bizzarri scherzi della tecnologia di ultimissima generazione. Oggi sappiamo che a volte questi film diventano realtà.