Trump e i suoi combattenti

/ 08.02.2021
di Paola Peduzzi

Nel tardo pomeriggio del 18 dicembre 2020 quattro sostenitori di teorie del complotto entrarono nello studio ovale, dove Donald Trump li aspettava. Era passato più di un mese da quando Joe Biden aveva vinto le elezioni ed erano passati quattro giorni da quando i Collegi elettorali avevano reso ufficiale la vittoria del democratico.

I quattro erano guidati da Sidney Powell, la più tenace e ciarliera dei legali di Trump, alle prese con le prove definitive: l’interferenza dei democratici che hanno falsato il risultato negli Stati chiave e l’interferenza di Paesi stranieri (quest’ultimo punto era la «novità» portata avanti da Powell). L’incontro finì a urli e insulti, con The Donald che usciva, rientrava e sobillava i più scalmanati, e con Rudy Giuliani, legale di Trump non esattamente cauto, che faceva «la voce della ragione», come ha scritto il sito Axios (www.axios.com), autore di questo retroscena dettagliato e imperdibile.

Il fatto che Giuliani fosse il più ragionevole dà il senso dell’incontro e il suo obiettivo. La priorità di Trump erano i «fighters», i combattenti, quelli disposti a tutto pur di difendere e rilanciare l’ex presidente americano.
Negli scorsi giorni, il sito Politico (www.politico.com) è venuto in possesso di quello che è definito il «report post mortem» del trumpismo, un documento di 27 pagine redatto dall’esperto di sondaggi della Casa Bianca Tony Fabrizio, che racconta i dettagli della sconfitta di Trump e indica un elemento chiave: nel momento in cui la campagna elettorale di Trump si è colorata di vittimismo e di complottismo (le elezioni rubate) c’è stata un’emorragia di consensi nei confronti dell’ex presidente.

Il documento è stato consegnato ai leader dei repubblicani e ai funzionari della Casa Bianca tra dicembre e gennaio: non è certo che Trump lo abbia letto. In ogni caso l’ex presidente ha scelto la via dello scontro: desidera i «fighters», la lealtà si misura in quanto ti esponi, quanto sei disposto a comprometterti per salvarlo.
Sempre di recente il team legale di Trump ha subito un duro colpo: cinque suoi consiglieri se ne sono andati. Secondo le ricostruzioni dei media, la rottura si è consumata sulla strategia da seguire per affrontare il processo al Congresso, cioè il secondo impeachment di Trump.

La messa in stato d’accusa dell’ex presidente è stata voluta dai democratici e da alcuni repubblicani per sanzionare quel che è accaduto al Campidoglio il 6 gennaio scorso. Donald Trump è accusato di aver istigato l’assalto al palazzo. Qual è la linea di difesa? Ce ne sono due: una vuole che si combatta e cioè che si porti anche dentro al Congresso la teoria delle elezioni rubate. Questa è la linea dei «fighters», la più radicale, secondo la quale, in sostanza, Joe Biden è un impostore.

La seconda è la linea di difesa cosiddetta tecnica: è incostituzionale portare avanti un impeachment di un ex presidente. È la linea dei più ragionevoli o dei più cauti, di quelli insomma che sono disposti a difendere Trump ma non a tutti i costi. Il team legale si è spaccato su questo punto, ora si è ricomposto con due nuove entrate. Ancora non si sa quale sarà la linea di difesa adottata da Trump, ufficialmente prevale la seconda. Il test di lealtà sui «fighters» non serve soltanto a maneggiare il fine regno di Trump: è la premessa per il suo futuro.
«Save America», un Pac creato dopo le elezioni di novembre, cioè dopo la sconfitta del repubblicano (Pac sta per Political action committee, Comitati di azione politica che hanno il compito di raccogliere fondi a sostegno di candidati), ha raccolto 31 milioni di dollari. In gran parte si tratta di risorse che erano confluite nel Pac elettorale di Trump, il «Make America great again». Ma se si fa un calcolo di quel che ha messo da parte l’ex presidente si trovano: un conto con 10,7 milioni di dollari e un altro Pac, «Save victory», con 33 milioni di dollari. Non tutti questi fondi sono a disposizione diretta di Trump, ma sono il trampolino di lancio della resistenza dell’ex presidente all’interno del Partito repubblicano e in America.

La forma di questa resistenza è ancora poco chiara: viene chiamata Patriot party, cioè il partito che Trump e i trumpiani vorrebbero costruire. Mentre la resa dei conti all’interno dei repubblicani è appena iniziata e ci sono segnali contrastanti rispetto all’obiettivo finale. C’è chi vuole raggiungere una convivenza tra le diverse anime del mondo conservatore e chi invece pensa che senza un’epurazione del trumpismo il Partito repubblicano non potrà ricompattarsi.

Non si tratta soltanto di linee ideologiche: il sistema americano vive di fatto in una campagna elettorale permanente e quindi il primo esito evidente di questa tensione interna è già individuabile ed è il voto di metà mandato del novembre 2022. Candidature, primarie, sostituzioni: il metro del Patriot party è questo. C’è poi Facebook. Secondo uno studio pubblicato da Reuters, il partito di Trump è già quasi formato e ha milioni di followers.