Sul cellulare di Clotilde, mia figlia 14enne, compare un meme con la faccia di Kōtarō Bokuto, capitano della squadra di pallavolo dell’Accademia Fukurodani, nella serie manga Haikyu! con sotto la scritta «TRIGGERED». Così Le parole dei figli mi portano a cercare il significato di trigger nelle sue varie declinazioni, fino a condurmi a discussioni in atto nelle università americane e a studi di Harvard. Partiamo dall’inizio.
La traduzione letterale dall’inglese di trigger è «grilletto». L’app Babbel, specializzata nell’apprendimento linguistico e che dedica una sezione ai termini più usati dai Gen Z, scrive: «Questo termine deriva dall’inglese to trigger, che vuol dire “innescare”. Il verbo italianizzato è diventato “triggerare” che si utilizza per indicare che qualcosa ci dà fastidio». Chi si definisce «triggerato da qualcosa o qualcuno» (da «triggered by…») intende dire che la tal cosa o persona gli ha provocato irritazione, disgusto o perfino rabbia e paura. Fin qui l’uso del termine nel gergo giovanile. Ma bisogna fare un passo in più. Non vi è mai capitato di aprire un libro dei vostri figli o di vedere post e video su TikTok dove compare la scritta «trigger warning», abbreviato in TW? Ormai il suo uso è frequentissimo, ma nessuna delle mamme da me interpellate ne conosce il significato (e neppure mio marito Riccardo che di solito sa tutto!). Il Cambridge Dictionary definisce il trigger warning (TW) come «una dichiarazione all’inizio di un pezzo scritto, prima dell’inizio di un film, ecc., che avverte le persone che potrebbero trovare il contenuto molto sconvolgente, soprattutto se hanno vissuto qualcosa di simile. Gli avvisi trigger dovrebbero proteggere le persone dai flashback post-traumatici». Di solito gli argomenti sensibili sono lo stupro, i disturbi alimentari, l’autolesionismo, il suicidio, l’omofobia, le molestie e il body shaming (la presa in giro di qualcuno per il suo aspetto fisico). Tutti temi sensibili che popolano il mondo dei social, motivo per cui tra i giovanissimi si è diffusa l’indicazione che è meglio avvisare chi sta per leggere o vedere: «Fare utilizzo del trigger warning è importante proprio per evitare che persone suscettibili o traumatizzate si ritrovino davanti immagini, tweet, post o storie che potrebbero peggiorare le loro condizioni psico-fisiche».
Sul giornale universitario della Lumsa, il secondo più antico ateneo di Roma dopo la Sapienza, per dire, il consiglio dato è: «Ammettiamo che vi viene in mente di scrivere un post o un tweet sul suicidio. Quello che dovrete scrivere è: “TW // Suicidio”, “Trigger Warning // Suicidio”, oppure “Questo post parla di suicidio”. In questo modo, gli utenti vedranno l’avviso prima di leggere il post per intero e potranno scegliere, in completa autonomia, se andare avanti oppure rinunciare». L’articolo si rivolge ai giovanissimi: «Molti di voi si staranno chiedendo: come può un avviso prima di un post aiutare chi è affetto da una forma di disagio mentale? Caratteristica principale del Ptsd (disturbo da stress post-traumatico, ndr) è il fatto che la vittima rivive ripetutamente l’esperienza traumatizzante sotto forma di flashback, ricordi e incubi. Ecco come un gesto piccolo, che a molti sembrerà banale e inutile, si trasforma in un gesto capace di aiutare seriamente qualcuno».
Gli esempi sono infiniti, del tipo: «Avvertimento trigger: questo articolo discuterà di aggressione sessuale. Questo potrebbe infastidire i lettori con esperienze simili». Ebbene, nelle università anglosassoni una corrente di studenti sostiene l’importanza dei trigger warning anche all’inizio delle lezioni. Tutto ciò ha scatenato un dibattito importante sull’opportunità o meno di utilizzarli a livello accademico. Quel che i nostri figli non sanno è la conclusione a cui sono arrivati, tra i vari studiosi che si sono dedicati al fenomeno, Benjamin W. Bellet, Payton J. Jones e Richard J. McNally del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Harvard in una pubblicazione sul «Journal of Behaviour Therapy and Experimental Psychiatry» già del luglio 2018: «Gli avvisi di attivazione aumentano l’ansia per il materiale percepito come dannoso». Riflettiamoci insieme ai nostri figli! Non sempre la soluzione che sembra la migliore lo è davvero.