Non vado a letto senza il mio pc. Pessima abitudine. Sí. Ma se non è perché devo ancora mandare qualche email o fare delle ricerche allora me lo porto per vedere le mie serie preferite su Netflix. Magari, nel frattempo, scappa anche qualche chat su Fb. Il mio pc, bellissimo, leggero, lo porto ovunque, per lavoro o altro, e se mi viene un languorino non esito a sgranocchiare le mie gallette di riso con la marmellata di lampone sopra la tastiera o a bere il mio tazzone di caffelatte tenendolo a margine del portatile.
«Orrore!» Griderà qualcuno. Ma io non riesco a vedere il mio pc come uno strumento il cui uso è limitato in un tempo preciso o a funzioni precise e a trattarlo come una semplice macchina. È un po’ come una coperta di Linus, maltrattata ma in qualche modo parte di me. Il mio pc può dirsi fortunato ad essere rigido e solido altrimenti a quest’ora somiglierebbe ad un vecchio libro del liceo tutto usurato e sottolineato. Sarebbe spiegazzato in ogni sua parte, avrebbe macchie di caffè sulle pagine, macchie di unto sulla copertina e pagine strappate.
Ho una grande confidenza con il mio pc, nemmeno fosse un amico, uno di quelli di cui puoi fidarti. Per questo ci sono rimasta male quando di recente mi ha lasciata in asso perché, accidentalmente, ci ho versato sopra un’intera tazza di tè caldo. Era collegato alla corrente. Come l’acqua ha toccato la tastiera... BUM! Terribile! Due giorni di lavoro polverizzati! Per non parlare di tutto il resto. Ciò di cui però davvero non riuscivo a capacitarmi in quel momento, era il fatto, così di punto in bianco, di ritrovarmi esclusa dal mio mondo. Era come se il mio migliore amico mi avesse appena sbattuto in faccia la porta di casa chiudendomi fuori. Mentre quelli veri mi dicevano cosa fare: «metti il pc in una bacinella con del riso», «asciugalo con il phon», «mettilo a testa in giù», «non riaccenderlo». Impossibile. Io ho subito tentato di accenderlo più volte, gli ho parlato, l’ho scongiurato, ma niente, era morto. È resuscitato un mese dopo ma non è mai più stato lo stesso.
Ma non finisce qui, la mia sfortuna tecnologica, intendo. Con l’inizio del nuovo anno, per uno strano scherzo del destino, il mio smartphone è finito sotto la ruota dell’auto della mia amica mentre faceva manovra... No, non avevo salvato le foto su icloud e nemmeno attivato il cerca iphone. Non c’è niente da fare, le commodity tecnologiche non sono un libro, un vicino di casa, il migliore amico, e non puoi stropicciarle o trattarle come fossero degli oggetti qualunque, anche se il confine è sempre più labile. Sempre di più le tecnologie determinano il nostro stato d’animo e la nostra identità. Non vi è mai capitato di andare fuori di testa perché il computer in ufficio non si avvia? O di avere un accenno di depressione nel momento in cui realizzate di aver dimenticato la password per sbloccare il telefonino e non vi ricordate dove avete messo il puk?
In quel momento vorreste parlare con il vostro pc, dirgli che siete voi quello che ogni giorno macchia la tastiera con il caffè e digita forsennatamente. Niente, la scatoletta è sensibile solo ai numeri. Pure quando inserite il codice corretto e riconosce la vostra identità, lo fa senza considerare la vostra storia personale, senza dare peso alle vostre colpe, ai vostri doveri, alle aspettative che portate con voi, a chi siete veramente. Per il filosofo Giorgio Agamben, questa nostalgia di essere riconosciuti da una macchina o dal proprio profilo Facebook, è l’espressione della perdita di aderenza con la realtà e il venir meno della fiducia dell’uomo moderno.
Chi sempre di più fatica ad instaurare e coltivare relazioni umane durature e profonde trova nel rapporto con la macchina una sorta di conforto. Illusorio naturalmente. Per i nostri pc siamo solo dei numeri. E quella aspettativa, attraverso l’estensione di Internet, di poterci regalare sensazioni di umana vicinanza è solo una falsa promessa. Dunque trattate bene il vostro pc ma non contateci troppo.