Tra ricordi e memorie

/ 24.07.2023
di Lina Bertola

Questo inizio d’estate si è portato via l’amico di una vita, una presenza che mi ha accompagnata in tante vicende professionali ed esistenziali. Se ne è andato per una malattia degenerativa che non lascia scampo e ti espone alla consapevolezza del destino e al lento consumarsi del suo piano.

Nei nostri ultimi, faticosi dialoghi abbiamo parlato tanto della morte. Di quella morte che lui sapeva imminente e che in me abitava invece l’orizzonte, assente e insieme presente, del sempre possibile. Avrei potuto morire io prima di lui, avevo detto qualche volta, ma questa mia verità gli bruciava dentro, come un’oscenità. È difficile condividere gli spazi delicati tra il vivere e il morire, difficile dare parole comuni al loro vissuto e al loro mistero. La morte è sempre ospitata dentro sguardi diversi che rendono difficile donarsi reciprocamente momenti di verità.

Non era credente, fino alla fine non ha voluto lasciarsi toccare dalla speranza. Aggrappato al disincanto, considerava la morte imminente come una tragica, definitiva cesura. Alla mia domanda sul senso della vita rispondeva, con parole sempre più fragili, sospese tra disperazione e risentimento, che la sola possibilità di trascendenza è nella memoria di coloro con cui abbiamo condiviso il cammino. Secondo lui, la morte concede in dono alla tua inevitabile finitudine solo fragili occasioni di trascendenza consegnate al ricordo di chi ci ha amato. Una memoria custodita nel sentire la vita, non certo nel sapere dei suoi molti libri, tradotti in diverse lingue, che avrebbero potuto continuare a vivere tra le mani degli studiosi.

Quel suo io, così presente nei suoi scritti, sembrava non riguardarlo più. Si disperava, invece, per il fatto che la nipotina era ancora troppo piccola per potersi ricordare dei momenti trascorsi con lui, del suono della sua voce, dell’espressione dei suoi occhi, del tocco delle sue carezze. L’unica forma di sopravvivenza, respirata a fatica tra la vita e la morte, non la percepiva tra le pagine dei suoi libri ma nei frammenti di questo vissuto aurorale, in cui solo intravedeva il senso e il mistero della vita. Forse per questa sua sempre celata inquietudine, negli ultimi giorni non rispondeva più ai miei messaggi se non con dolcissime immagini della bimba.

Il disincanto di questa trascendenza tanto intima quanto… immanente, riconoscibile solo nel «qui adesso» dei sorrisi della piccola, mi ha raggiunta come una vera e propria provocazione. Ora che il nostro dialogo si è interrotto, le sue nude parole continuano a risuonare in me come un invito a cercare di dar loro un senso, un invito a riflettere sul significato della memoria e sulla potenza dell’esperienza vissuta del ricordare.

Il valore più grande e più vero attribuito ai ricordi della bimba rispetto alla memoria contenuta nei suoi libri mi ha ricondotta immediatamente a Socrate, alle sue parole riportate da Platone nel Fedro: «Questo ha di terribile la scrittura, simile per la verità, alla pittura: infatti, le creature della pittura ti stanno di fronte come se fossero vive, ma se domandi loro qualcosa se ne restano zitte, chiuse in un solenne silenzio e così fanno anche i discorsi».

Socrate non ha scritto nulla perché credeva in una scrittura «migliore e più potente»: la «scrittura nell’anima». È nell’anima, e nell’incontro e nel dialogo di anime che la vita ci conduce verso un cammino di verità. Così, anche la memoria di esperienze di bellezza abita l’anima. Questo vissuto della memoria scritta nell’anima ci mantiene in continuo dialogo con il nostro mondo interiore; nel libro invece il dialogo non può essere mantenuto vivo. Se la interroghi, la pagina scritta ti ripeterà sempre la stessa cosa, perché l’Autore «non potrà più venire in suo soccorso».

La differenza tra forme diverse di memoria annunciata da Socrate sembra rivolgersi anche a noi, alla presenza di tante memorie informatiche che ci allontanano, in qualche modo, dal nostro intimo ricordare. La memoria consegnata al virtuale potrebbe infatti provocare una specie di alienazione del vissuto, una dimenticanza del corpo e dell’anima. Giuseppe Longo nel suo Homo technologicus, spiega bene il rischio di perdita del vissuto umano nelle esperienze virtuali: possiamo giocare il nostro rovescio preferito o rilanciare di testa un pallone restando immobili sul divano.

La «scrittura nell’anima» di Socrate, il valore di questa intima esperienza dell’umano, rimane ancora oggi un invito a prenderci cura della bellezza e della verità del nostro mondo interiore.