Torna il dialetto, ma come?

/ 16.07.2018
di Luciana Caglio

La giornata, a volte, comincia bene. Questione anche d’incontri. A Lugano, in una via del centro, fra tanti sconosciuti e tutti di fretta, ecco la faccia di qualcuno, che ricollego a un ricordo: condiviso. Infatti, si ferma e, con un sorriso di gratitudine, mi dice: «Cun lee podi parlà dialett». Finalmente, si era imbattuto in un possibile interlocutore: una persona, cresciuta, come lui, in quel clima di vicinanza e di familiarità, che rendeva inevitabili i contatti diretti, prima dell’era digitale. Nei negozi, in banca, dal benzinaio, alla biglietteria della stazione, nelle agenzie turistiche: per forza di cose, ci si parlava. E da concittadini, in qualche modo legati fra loro. Come nel nostro caso. Lui, postino, recapitava la corrispondenza alle redazioni dei giornali, le famose buste verdi «fuori sacco», al «Corriere del Ticino», dove aveva incontrato mio padre, e all’«Azione», nelle varie sedi, in Piazza Manzoni, via Bossi, via Pretorio. Insomma, era una paginetta di storia locale, rievocata in dialetto.

Perché questa è la cosiddetta lingua del cuore, insostituibile quando, appunto, c’è di mezzo il rimpianto per un passato, non lontano nel tempo ma nelle abitudini. Fra cui l’uso del dialetto, dominante sin verso gli anni 60 nella nostra quotidianità, soprattutto in campagna e nelle valli del Sopraceneri. Ma destinato a un irrimediabile declino. Nei decenni successivi, attraverso il cinema e la televisione d’oltre confine, l’italiano stava, rapidamente, conquistando terreno, in particolare fra i giovani. Si consolidava, così, l’inconfondibile bilinguismo ticinese, marchio regionale di una parlata in cui italiano e dialetto convivevano, con ruoli particolari, che s’integravano. Scattava una sorta di automatismo, a seconda delle situazioni. La lingua alta, negli ambienti ufficiali, scuole, tribunali, parlamenti, ai microfoni della radio, fra gli addetti ai lavori della cultura, ed esibita, non da ultimo, come segno di raffinatezza negli ambienti della buona borghesia e dei ceti rampanti. Si educavano i bambini in italiano, considerato, figurarsi, un riparo dalla volgarità: ben presto travolto dall’ondata dei «vaffa», ecc. Anzi, paradossalmente, fu proprio grazie alle parolacce, sintomo di una presunta libertà, che il nuovo italiano conquistò le simpatie dei giovanissimi, anche in Ticino. Tutto ciò a spese del dialetto che, stando alle ultime statistiche, oggi è parlato regolarmente da neppure un terzo della nostra popolazione.

Ma va detto che questa popolazione, nel frattempo, ha subito uno sconvolgimento, addirittura rivoluzionario, e non concluso. Paese, per definizione di confine, abituato per tradizione alle diversità anche culturali, il Ticino si è trovato alle prese con un afflusso di ospiti, scomodo, non tanto per il numero quanto per le diversità. 

A Lugano, oltre le metà dei cittadini è straniera e rappresenta un ventaglio, se ho ben capito, di un centinaio di nazionalità. Di fronte a quest’emergenza linguistica, il dialetto finisce, per forza di cose, penalizzato. Per farsi capire bisogna, ovviamente, affidarsi alla lingua ufficiale, l’italiano, magari affiancato all’inglese. Il che, sia chiaro, non significa disprezzare il dialetto, al quale ormai da decenni, spetta un ruolo rilevante, sul piano culturale, storico e sociale. Tanto da sollecitare, da un lato, l’attenzione di giovani linguisti e, dall’altro, una forma persino un po’ snobistica di riscoperta da parte di intellettuali in vena nostalgica. Come non citare le battute in comasco di Gianni Clerici, quando commentava le finali di tennis a Wimbledon. O ancora le rubriche in dialetto di Piergiorgio Baroni su «Illustrazione ticinese». E, perché no, le commedie teatrali che, magari con cedimenti di stile, testimoniano l’insostituibile attaccamento al «quel che eravamo».

Si sta, infine, assistendo anche a un rilancio strumentale del dialetto. Cioè con secondi fini. Non s’interviene a favore di una parlata, che è la nostra, bensì contro chi questa parlata non la sa, perché viene da altrove. E allora si propone d’imporla nell’insegnamento scolastico, una materia in più, dopo la civica, veicolata dalla politica. Ma c’è anche un aspetto illusorio, nell’uso strumentale del dialetto. Succede quando, «sa parla dialett» per ingraziarsi il poliziotto. Che non capisce. È originario del Kosovo.